Con la recente sentenza n. 2196 depositata il 30 gennaio 2025 la Suprema Corte ha rimarcato la necessità di applicare il principio statutario della collaborazione e della buona fede in caso di presentazione di un’istanza di rimborso da parte del contribuente. Al riguardo, ha precisato che la mancanza di documentazione in allegato alla domanda di rimborso e, quindi, in sostanza, la carenza di prova per determinare l’an ed il quantum del rimborso stesso, non sono considerati dal legislatore direttamente motivo di rigetto o di inammissibilità dell’istanza, dando vita piuttosto ad un confronto con l’Ufficio ed alla possibilità di integrazione dei documenti rilevanti. Tale principio vale anche nella successiva fase processuale. Il caso Il sig. A.A., lavoratore autonomo, ha chiesto nel corso del 2007 il rimborso di parte dell’Irpef e Ilor corrisposte per gli anni 1990, 1991 e 1992 usufruendo dell’agevolazione prevista dall’art. 9 della Legge n. 289/2002. A seguito di silenzio- rifiuto, il contribuente ha adito la competente CTP che emetteva sentenza di rigetto del ricorso a causa della mancata prova del pagamento delle imposte. A conclusione del successivo gravame, la CTR ha accolto il ricorso in appello rilevando come l’Ufficio avesse la possibilità di verificare il versamento delle imposte consultando l’anagrafe tributaria. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate. Il contribuente nel relativo procedimento ha resistito con controricorso. Con il primo motivo di ricorso, la ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per error in procedendo, avendo dovuto la CTR dichiarare inammissibile il ricorso. Ciò non avendo il contribuente allegato all’istanza la documentazione comprovante il pagamento delle imposte di cui chiedeva il rimborso, sicché non poteva neanche delinearsi nella specie un silenzio-rifiuto. Tra l’altro – ha sostenuto l’Ufficio – tale vizio dell’istanza non avrebbe potuto essere sanato in sede giudiziale. Con successiva censura, ha sostenuto che il Giudice d’appello avrebbe dovuto considerare l’onere del contribuente di provare il pagamento delle somme richieste, onere ritenuto erroneamente non sussistente sul presupposto che i dati rilevanti sarebbero già in possesso dell’Amministrazione finanziaria. L’Agenzia delle Entrate con il secondo motivo di ricorso ha censurato la sentenza per violazione di legge, dovendosi applicare la corretta disciplina per la tassazione dei redditi di lavoro autonomo, che subordina il diritto al rimborso a determinate soglie de minimis. La decisione La Cassazione con la pronuncia in commento ha accolto il secondo motivo di ricorso, disponendo il rinvio del procedimento alla competente CGT in diversa composizione. Per quanto di interesse ai fini del presente commento, il primo motivo è stato ritenuto infondato. A tal proposito, la Corte di cassazione ha richiamato la disciplina di riferimento – il D.L. 91/2017 – secondo cui il contribuente che abbia presentato un’istanza di rimborso generica e priva di documentazione può integrare l’istanza con i dati necessari al calcolo del rimborso. Inoltre, richiamando l’orientamento della stessa Cassazione[1], ha ribadito il principio secondo cui: “la mancanza di documentazione in allegato alla domanda di rimborso e, quindi, in sostanza, la carenza di prova per determinare l’an ed il quantum del rimborso stesso, non sono considerati dal legislatore direttamente motivo di rigetto o di inammissibilità dell’istanza, dando vita piuttosto ad un confronto con l’Ufficio ed alla possibilità di integrazione dei documenti rilevanti”. Spiega inoltre la Cassazione che questi principi non sono limitati alla fase endo-procedimentale, operando anche nella successiva fase procedimentale, sia quanto all’onere di allegazione che quanto agli oneri di prova. Infatti, non può ragionevolmente ritenersi che l’Amministrazione che sia rimasta inerte nella fase procedimentale nella quale, invece, era tenuta ad un comportamento collaborativo, possa giovarsi di tale condotta nella fase processuale. F.D.D. [1] Cass. n. 13771/2019.