Secondo quanto chiarito dalla Suprema Corte, con la sentenza del 22 novembre 2024 n. 42822, evade l’IVA l’imprenditore che applica il regime di inversione contabile anziché il regime del margine sulla vendita di preziosi finiti, destinati al consumo immediato e non alla fusione o trasformazione. Il caso. All’amministratore unico e legale rappresentante di una società a responsabilità limitata operativa nel settore dell’oreficeria veniva contestata l’indicazione, nella dichiarazione ai fini II.DD. e IVA per il biennio 2011-2012, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo. All’esito del giudizio penale di primo grado veniva emessa pronuncia di proscioglimento stante l’estinzione per intercorsa prescrizione del reato ex art. 4 D.Lgs. n. 74/2000, mentre in appello l’imputato veniva assolto dal delitto in oggetto limitatamente alla condotta tenuta in relazione all’anno d’imposta 2012. Ne veniva, invece, dichiarata la responsabilità relativamente all’indicazione dei predetti elementi nella dichiarazione per il periodo d’imposta 2011. La difesa dell’imputato, pertanto, proponeva ricorso per cassazione deducendo, per quanto qui di interesse, violazione di legge e di motivazione in relazione agli artt. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, 17 del d.P.R. n. 633/1972 e 3, co. 4, della L. n. 7/2000. In particolare, la statuizione della Corte d’Appello veniva contestata nella parte in cui, sulla scorta della motivazione contenuta negli avvisi di accertamento notificati dall’Agenzia delle entrate alla società di oreficeria dell’imputato, aveva ritenuto non applicabile alla stessa il regime di inversione contabile (c.d. reverse charge), in contrasto, peraltro, con un parere richiesto in materia dalle associazioni di categoria alla medesima Agenzia delle entrate. La decisione La Suprema Corte ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso in quanto parte ricorrente non si è confrontata con le valutazioni svolte dal giudice di appello, fondate su dati obiettivi e logicamente argomentate, in base alle quali è stata esclusa l’operatività, nel caso di specie, del regime di inversione contabile alla luce dei rilievi esposti dall’Agenzia delle entrate nei provvedimenti impositivi notificati alla società. Chiarisce il Collegio che l’art. 17 co. 5 d.P.R. n. 633/1972, in deroga a quanto previsto dal primo comma, stabilisce che ai fini dell’applicazione del regime di inversione contabile le cessioni imponibili debbano avere ad oggetto oro da investimento[1], materiale d’oro o prodotti semilavorati di una purezza ben determinata, con ciò postulando, da una parte, che il metallo ceduto debba possedere precise caratteristiche oggettive e, dall’altra, che lo stesso debba essere destinato non al consumo immediato, bensì alla trasformazione in un diverso oggetto, idoneo ad avviare un nuovo ciclo economico. Ed è proprio questo il dato valorizzato dalla pronuncia resa all’esito del giudizio di secondo grado, con cui i giudici territoriali hanno evidenziato la carenza di tali necessarie caratteristiche imposte ex lege, desunta dalle motivazioni addotte dall’Amministrazione finanziaria nei richiamati provvedimenti impositivi, con la conseguenza della necessaria non applicabilità del reverse charge in sostituzione del regime del margine. Le cessioni imponibili, infatti, afferivano ad oggetti d’oro integri precedentemente acquistati da privati, non destinabili alla fusione od alla trasformazione e, pertanto, privi dei requisiti di legge per l’applicazione del regime ex art. 17 co. 5 d.P.R. n. 633/1972. F.N. [1] In tal senso, la definizione di “oro da investimento” di cui all’art. 1 della Legge n. 7/2000 in relazione a transazioni di carattere finanziario è ancorata a specifici parametri di forma, ma soprattutto di peso e purezza. Il solo requisito della purezza (“pari o superiore a 325 millesimi”) è invece richiesto per l’oro ad uso “prevalentemente industriale”, non immediatamente destinato al consumo, soggetto non a regime ordinario, bensì al meccanismo di inversione contabile ai sensi dell’art. 17, co. 5, d.P.R. n. 633/1972.