Non commette reato l’imprenditore che omette di versare l’IVA a causa di una comprovata crisi di liquidità. L’introduzione nel sistema penal-tributario del comma 3-bis dell’art. 13 D.Lgs. n. 74/2000 comporta, infatti, il superamento, in punto di diritto positivo, del rigido orientamento di legittimità secondo cui l’omesso versamento di imposta in conseguenza del mancato incasso delle fatture per inadempimento di terzi non escluderebbe la sussistenza del dolo necessario ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 10-ter s.d. Il caso La Corte d’Appello di Napoli confermava una sentenza di condanna per il reato di omesso versamento dell’IVA dovuta per il periodo d’imposta 2016 previsto dall’art. 10-ter D.Lgs. n. 74/2000, emessa in primo grado nei confronti del rappresentante legale di una società per azioni. L’imputato ricorreva in Corte di cassazione deducendo, inter alia e per quanto qui di interesse, il mancato incasso dell’IVA dichiarata in conseguenza dell’inadempimento da parte dei committenti, tra cui alcuni enti pubblici. Sosteneva, inoltre, di aver fatto tutto il possibile per la salvaguardia dell’impresa, provvedendo altresì a un aumento di capitale mediante conferimento di un bene immobile personale onde far fronte agli omessi pagamenti, ascrivibili anche a pubbliche amministrazioni: profili, questi, ritenuti irrilevanti dal giudice di appello, che anzi riteneva persino di fare un incongruo riferimento alla “ostinazione” del legale rappresentante “nel portare avanti l’azienda”. Nel corso del giudizio di legittimità, la difesa dell’imputato produceva altresì una memoria, insistendo per l’accoglimento del ricorso anche alla luce della novella normativa rappresentata dall’introduzione del comma 3-bis dell’art. 13 del D.Lgs. n. 74/2000, che ha previsto una nuova causa di non punibilità per il reato punito dall’art. 10-ter del medesimo decreto. La decisione La terza sezione penale della Corte di cassazione ha ritenuto il primo motivo di ricorso meritevole di accoglimento, con valenza assorbente delle ulteriori censure prospettate dal ricorrente, ponendosi in contrasto con un precedente orientamento giurisprudenziale, alla luce delle novità introdotte dalla riforma tributaria. La Corte ha evidenziato come il giudice di appello sia pervenuto alla propria decisione aderendo al severo orientamento di legittimità secondo cui l’omesso versamento dell’IVA in conseguenza del mancato incasso di fatture emesse per inadempimento dei clienti non esclude la sussistenza del dolo richiesto ai fini dell’integrazione del delitto ex art. 10-ter D.Lgs. n. 74/2000, per due ordini di motivi: il primo risiede nel fatto che l’obbligo di versare l’imposta prescinde dalla riscossione delle somme esposte in fattura, il secondo nel fatto che il mancato adempimento sarebbe riconducibile all’ordinario rischio d’impresa, evitabile anche mediante lo storno dei corrispettivi non riscossi dai ricavi. A questo rigido orientamento si erano, invero, già contrapposte altre pronunce che, pur riprendendo i principi ora esposti, ne mitigavano la portata applicativa valorizzando la sussistenza, in concreto, di “una percentuale da ritenersi fisiologica” entro cui ricomprendere gli insoluti, viceversa negando il configurarsi del reato di omesso versamento in casi di gravissima crisi di liquidità conseguente al mancato pagamento di un’elevata percentuale di fatturato. In altre parole, questo orientamento (di cui è espressione, a titolo esemplificativo, Cass. n. 19651/2022) aveva valorizzato la necessità di tener conto di comprovate situazioni di concreta impossibilità a far fronte agli adempimenti fiscali cagionate dalla condotta inadempiente dei clienti. Tale chiave di lettura, oggi, si impone in forza dell’introduzione del citato comma 3-bis dell’art. 13 D.Lgs. n. 74/2000, secondo cui i reati di cui agli artt. 10-bis e 10-ter “non sono punibili se il fatto dipende da cause non imputabili all'autore sopravvenute, rispettivamente, all'effettuazione delle ritenute o all'incasso dell'imposta sul valore aggiunto”. La norma espressamente dispone come segue: “Ai fini di cui al primo periodo, il giudice tiene conto della crisi non transitoria di liquidità dell'autore dovuta alla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o al mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi”. Alla luce di tale disposizione, la terza sezione penale della Suprema Corte ha rilevato come già nel giudizio di prime cure l’imputato avesse adeguatamente provato la grave crisi di liquidità dell’impresa di cui era legale rappresentante. La prova documentale addotta, infatti, concerneva non solo il riepilogo delle fatture emesse e non pagate per il periodo d’imposta considerato, ma anche il contenuto della relazione resa dal commissario giudiziale nell’ambito della procedura di concordato preventivo, da cui si potevano agevolmente desumere le cause della predetta crisi nel blocco dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione, nella crisi del mercato di riferimento e nel mancato recupero di ingenti crediti verso terzi. La relazione, inoltre, aveva evidenziato chiaramente come l’imputato avesse “cercato di far fronte alla situazione riducendo i costi di produzione (licenziamenti collettivi) e provvedendo ad un aumento di capitale” mediante il conferimento di un immobile di sua proprietà. Di tali allegazioni il giudice di merito avrebbe dovuto tener conto, con la conseguenza dell’annullamento della sentenza impugnata con rinvio a diversa sezione della Corte d’Appello. F.N.