Il presente contributo è stato redatto in collaborazione con l’Osservatorio Compliance 231 nell’ambito della rubrica mensile “Focus Penale Tributario”. *** Con la sentenza n. 37131 dell’8 ottobre scorso, la Corte di cassazione ha ribadito il principio per cui l’accettazione del ruolo di legale rappresentante da parte di un soggetto, purtuttavia consapevole del fatto che l’effettiva gestione della società sarebbe rimasta in capo all’amministratore di fatto, non comporta ipso facto alcuna sua responsabilità per dolo, che si configurerebbe come una responsabilità di posizione inammissibile ai sensi dell’art. 27 Cost. Più in dettaglio, la Corte di Appello di Milano aveva confermato la sentenza di condanna emessa dal Tribunale in relazione al delitto di cui all’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000 nei confronti del legale rappresentante di una s.r.l. che al fine di evadere le imposte aveva indicato, nella dichiarazione IVA per il periodo d’imposta 2017, elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti. Secondo i giudici di appello l’imputato avrebbe dovuto notare vari “segnali di allarme” circa la gestione della società, dall’assenza di contratti tra emittente e utilizzatrice delle fatture all’emissione in pari data di plurime fatture per importi consistenti o, ancora, le incongruenze temporali relative alla movimentazione delle merci dal magazzino della logistica. L’imputato proponeva ricorso per cassazione affidato a due motivi: l’assenza di prova del coinvolgimento della società (di cui peraltro risultava provata l’operatività, altresì riflessa nell’effettività delle prestazioni indicate in fattura) in una frode carosello e la mancanza di consapevolezza di tale situazione da parte dell’imputato stesso, mero prestanome il cui dolo la Corte di Appello aveva desunto dall’accettazione dell’incarico di amministratore. La Corte di cassazione ha dunque accolto il ricorso censurando l’approccio adottato dal giudice di secondo grado, che aveva impostato il decisum esclusivamente sull’avvenuta accettazione, da parte dell’imputato, del ruolo di amministratore nonché sulla sottoscrizione della dichiarazione con indicazione di elementi passivi fittizi senza aver effettuato i necessari controlli, anche in relazione ai diversi indici di anomalia gestionale della società da parte dell’amministratore di fatto. Secondo i giudici di legittimità, tali elementi non sono invero sufficienti a provare il dolo specifico richiesto per il reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 D.Lgs. n. 74/2000. Ai fini della configurazione del delitto in commento, infatti, è necessario provare il dolo specifico, vale a dire la consapevolezza del prestanome circa l’inesistenza (nel caso di specie, soggettiva) delle operazioni, supportata dall’intenzione di evadere le imposte. Viceversa, l’aver omesso i controlli sulle fatture non può che integrare, per consolidato orientamento giurisprudenziale, una violazione del dovere di diligenza configurabile esclusivamente in termini di colpa. In tal senso la Corte si sofferma, opportunamente, sulla distinzione tra dolo generico e specifico, rammentando come quest’ultimo (i.e. il fine di evasione) rappresenti un quid che, lungi dal sostituire il dolo generico, vi si aggiunge “arricchendo il contenuto dell’elemento soggettivo” della condotta delittuosa. Ciò premesso, pertanto, viene riaffermato il principio per cui la mera accettazione del ruolo di amministratore (in realtà un semplice prestanome) non implica ex se il configurarsi di una responsabilità penale per dichiarazione fraudolenta, il giudice di merito essendo invece tenuto a motivare adeguatamente, sulla scorta non di mere presunzioni bensì di elementi connotati da concretezza, la sussistenza del dolo specifico. Sebbene applicato anche in altre recenti pronunce della Corte di cassazione (ad esempio la n. 31882/2023), il principio espresso con la sentenza in commento non può tuttavia dirsi pacifico in giurisprudenza. La stessa Cassazione si è espressa, infatti, in maniera difforme rispetto all’orientamento fatto proprio dalla pronuncia qui commentata, affermando che l'amministratore di una società risponde del reato tributario quale diretto destinatario degli obblighi di legge anche qualora sia un mero prestanome. Ciò, in considerazione del fatto che la semplice accettazione della carica attribuisce doveri di vigilanza e controllo il cui mancato rispetto comporta l’insorgere della responsabilità penale o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale, per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino (Cass. pen., Sez. IV, n. 46834/2023). Sulla base di tale principio, per esempio, con la sentenza n. 42897/2018 i giudici di legittimità hanno riconosciuto la responsabilità dell'amministratore di diritto a titolo di concorso con l’amministratore di fatto nel reato di emissione di fatture false per operazioni inesistenti, non già ed esclusivamente in virtù della posizione formale rivestita all'interno della società, ma in ragione della condotta omissiva dalla stessa posta in essere, consistente nel non avere impedito, ex art. 40 c.p. comma 2, l'evento che aveva l'obbligo giuridico di impedire: vale a dire, nel mancato esercizio dei poteri di gestione della società e di controllo sull'operato dell'amministratore di fatto, connaturati alla carica rivestita. Risulta evidente come l’applicazione di questo secondo orientamento, privilegiando l’aspetto relativo ai doveri che insorgono in capo agli amministratori in forza dell’art. 2392 c.c. rispetto alla sussistenza del dolo specifico richiesto dai reati dichiarativi, rischi di ledere il principio di personalità della responsabilità penale sancito dalla Costituzione, maggiormente tutelato ove, viceversa, trovino applicazione i principi espressi dalla sentenza oggetto del presente contributo.