Portata innovativa del comma 5-bis dell’art. 7 D. Lgs. n. 546/1992 e motivazione dei provvedimenti impositivi

29 Maggio 2023

La Corte di giustizia tributaria di I grado di Siracusa si pronuncia in tema di deducibilità dei costi d’impresa, offrendo l’occasione per una lettura in profondità della novella legislativa rappresentata dall’art. 7, comma 5-bis, del D. Lgs. n. 546/1992, altresì pronunciandosi sul tema della necessaria sussistenza, già nella fase procedimentale finalizzata all’emissione dell’avviso di accertamento, degli elementi di prova destinati ad emergere nella successiva parentesi processuale.

Nell’ancora scarso panorama delle pronunce di merito relative all’interpretazione del nuovo art. 7, comma 5-bis, del D. Lgs. n. 546/1992, la sentenza n. 3856 del 23 novembre 2022 emessa dalla Corte di giustizia tributaria di I grado di Siracusa rappresenta un contributo di particolare interesse.

Il richiamato comma 5-bis, introdotto dalla L. n. 130/2022 nel corpo dell’art. 7 del decreto sul processo tributario, prevede che “l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato. Il giudice fonda la decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla l’atto impositivo se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni. Spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati”.

L’ingresso della norma nel sistema tributario, è noto, ha dato il via a un dibattito intenso nella dottrina più accorta, che ne ha evidenziato l’assoluta rilevanza e la portata innovativa in punto di riparto dell’onere probatorio. Un entusiasmo interpretativo che invero non ha trovato corrispondenza nella prima produzione giurisprudenziale di legittimità: secondo la Suprema Corte, infatti, la novella “si riferisce all’onere probatorio in capo all’amministrazione, senza incidere sull’assetto del suo assolvimento in base alle scansioni processuali in cui quest’ultimo avviene”.

In altri termini, a parere del supremo consesso di legittimità la novella normativa non è suscettibile di incidere sulle regole generali del riparto dell’onus probandi, limitandosi piuttosto a ribadire l’onere gravante sull’Amministrazione senza apportare alcun cambiamento circa le modalità di assolvimento dello stesso.

Secondo la CGT di I grado di Siracusa, invece, il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 “introduce una regola "propria" nel diritto tributario per dirimere le questioni in ordine al riparto dell'onere della prova, distaccandosi così dalla disposizione civilistica dell'articolo 2697 del Codice civile”, così superando “la trasposizione, talora impropria, nel processo tributario di dinamiche essenzialmente privatistiche”. Secondo il Collegio siciliano, inoltre, sulla scorta della nuova regola “è inequivocabile che sia l’Amministrazione Finanziaria che è tenuta a provare le contestazioni afferenti a tutte le tipologie di violazioni, a prescindere che si controverta di maggiori ricavi o minori costi nel regime d’impresa”.

Viene dunque apertamente valorizzata la portata innovativa della disposizione di recente introduzione, viceversa negata (non senza una certa sbrigatività) dalle prime pronunce della Corte di Cassazione sul tema.

Pertanto, con riferimento al caso dedotto in giudizio (vertendosi in tema di deducibilità dei costi d’impresa) i giudici hanno stabilito che la prova dei fatti costitutivi della pretesa deve necessariamente appuntarsi tanto sugli elementi attivi quanto su quelli passivi della stessa.

La Suprema Corte ha spesso statuito nel senso che l’onere di provare la deduzione di un costo grava sul contribuente, quello dell’Ufficio dovendo al contrario riguardare le sole componenti positive del reddito d'impresa. Ma, secondo la pronuncia in esame, “se così fosse, considerando che il reddito d’impresa è il risultato di componenti positive e negative, tale orientamento apparirebbe assolutamente strabico ed illogico. A maggior ragione la nuova disposizione sull'onere della prova introdotta dalla Legge n. 130/2022 consente senz’ombra di dubbio di superare questo equivoco, per cui anche per i componenti negativi di reddito l’onere probatorio non può che incombere sull'Amministrazione Finanziaria con l’unica eccezione riguardante le controversie da rimborso in relazione alle quali l’onere della prova rimane sempre a carico del contribuente”.

Su un altro punto di particolare pregio si è da ultimo focalizzata l’attenzione del Collegio siciliano.

Stando al dictum della Corte, infatti, “gli elementi di prova acquisiti durante la fase istruttoria devono in ogni caso essere puntualmente indicati nell'atto impositivo, considerata la piena osmosi tra prova procedimentale e prova processuale”.

È il tema della necessaria preesistenza e sussistenza, già nella fase procedimentale finalizzata all’emissione dell’avviso di accertamento, degli elementi di provache, stando al dettato della novella in esame,“emergono nel giudizio”, vale a dire nella successiva appendice processuale. Un tema, a ben vedere, non privo di conseguenze pratiche relativamente alla motivazione dei provvedimenti impositivi, poiché secondo la Corte “gli elementi di prova acquisiti durante la fase istruttoria devono in ogni caso essere puntualmente indicati nell'atto impositivo, considerata la piena osmosi tra prova procedimentale e prova processuale”.

Così facendo viene, in un certo senso, anticipato alla fase del procedimento amministrativo il momento della formazione degli “elementi di prova” che parte erariale addurrà nel corso del giudizio. Il che non è privo di ricadute sul piano della difesa, poiché le contestazioni mosse con il ricorso tributario in punto di motivazione del provvedimento impugnato potrebbero, in astratto, esplicare la propria efficacia anche sul piano del mancato assolvimento dell’onere della prova.

Il thema decidendum del giudizio tributario, invero, è di fatto definito dal perimetro motivazionale dell’atto impugnato: è in questa sede che l’Amministrazione finanziaria deduce fatti e circostanze successivamente posti a fondamento del giudizio, che dunque circoscrivono sin dal momento dell’accertamento la cornice fattuale e le questioni giuridiche che formeranno oggetto di discussione davanti al giudice. Non sussiste, pertanto, un distacco netto tra le due fasi: anzi, si verifica “la piena osmosi tra prova procedimentale e prova processuale” poiché i fatti assunti a fondamento della motivazione del provvedimento impositivo e quelli poi dedotti in giudizio rientrano nella medesima intelaiatura entro i cui limiti dovrà svolgersi la controversia.

La lettura in questione sembra trovare conforto nel d.d.l. di delega al Governo per la riforma fiscale approvato lo scorso 16 marzo 2023, il cui art. 4, co. 1, lett. a), prevede il rafforzamento dell’obbligo di motivazione degli atti impositivi “anche mediante l’indicazione delle prove su cui si fonda la pretesa”. Una disposizione la cui correlazione con l’art. 7, comma 5-bis, D. Lgs. n. 546/1992 non sfuggirà, a ulteriore riprova dell’insussistenza di una netta cesura tra rispetto dell’onere di motivazione degli atti e assolvimento dell’onus probandi nel giudizio tributario.

F.N.

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