Un vademecum sulle frodi IVA e alcune questioni di rilievo in una recente pronuncia della CGUE

26 Maggio 2023

La sentenza Aquila Part della Corte di Giustizia dell’Unione Europea offre l’occasione per riepilogare le regole del riparto dell’onere probatorio in materia di frodi finalizzate all’evasione dell’IVA ed affronta alcune problematiche di particolare rilievo, dalle presunzioni alla possibilità di fondare la contestazione fiscale sull’asserita violazione di una normativa extratributaria, fino all’assimilazione della conoscenza dei fatti costitutivi della frode da parte di un soggetto terzo alla propria conoscenza dei medesimi fatti.

La sentenza Aquila Part del 1° dicembre 2022, emessa dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea all’esito della causa C-512/21, fa il punto sul tema, sempre attuale, del riparto dell’onere probatorio in materia di frodi IVA, altresì esprimendosi su tematiche di particolare rilievo, dalle presunzioni alla possibilità di fondare la contestazione fiscale sull’asserita violazione di una normativa extratributaria, fino all’assimilazione della conoscenza dei fatti costitutivi della frode da parte di un soggetto terzo alla propria conoscenza dei medesimi fatti.

In estrema sintesi, il caso all’esame della Corte riguarda una contestazione mossa dal Fisco ungherese alla Aquila Part (società rumena identificata ai fini IVA in Ungheria che svolgeva attività di intermediazione per il commercio nel settore alimentare) di aver partecipato a una frode carosello finalizzata all’evasione dell’IVA. La contribuente aveva stipulato con una società terza (risultata coinvolta, in precedenza, in una frode) un contratto di mandato per lo svolgimento dell’attività di compravendita di beni a nome del mandante.

La contestazione erariale trovava fondamento in una pluralità di elementi, tra cui:

  • l’esistenza di una clausola inusuale nei contratti di trasporto;
  • le operazioni finanziarie poste in essere dalle varie società partecipanti alla catena delle cessioni;
  • l’esiguo margine commerciale dalle stesse applicato;
  • la pregressa partecipazione della società mandataria ad altra frode IVA;
  • la conoscenza dei fatti costitutivi della frode da parte del legale rappresentante della società mandataria.

Inoltre l’Amministrazione aveva fondato i propri rilievi sull’asserita violazione delle norme in materia di sicurezza della catena alimentare (quindi su una normativa extratributaria), in assenza di una previa decisione dell’organo amministrativo competente a constatare tale tipologia di infrazione.

Il giudice del rinvio sollevava ben sei questioni pregiudiziali; la pronuncia è pertanto particolarmente articolata e ricca di spunti di riflessione, in primo luogo in tema di prove.

Le regole del riparto dell’onus probandi prevedono, come noto, che l’Amministrazione è tenuta a fornire gli elementi di fatto comprovanti la contestazione mossa al contribuente e a dimostrarne la connivenza nella frode, in termini di conoscenza o conoscibilità della natura fraudolenta dell’operazione, ricorrendo a elementi oggettivi che, tenuto conto delle circostanze concrete e dimostrate, avrebbero dovuto indurre l’operatore medio di settore a sospettarne l’irregolarità. Dal canto suo, il contribuente deve fornire la prova della propria buona fede e incolpevole ignoranza del meccanismo illecito, dimostrando di aver effettivamente concluso l’operazione con il soggetto emittente la fattura e di aver condotto nei riguardi di quest’ultimo verifiche idonee a rimuovere dubbi circa la fittizietà o meno della sua natura.

Tale scansione probatoria, derivante dall’elaborazione giurisprudenziale ormai consolidata, viene riaffermata dalla Corte anche in questa occasione, ribadendo che “il beneficio del diritto a detrazione può essere negato al soggetto passivo soltanto qualora si dimostri, alla luce di elementi oggettivi, che questi sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con l’acquisto dei beni e servizi posti a fondamento del diritto a detrazione, lo stesso partecipava a un’operazione che si iscriveva in una siffatta evasione commessa dal fornitore o da altro operatore interveniuto a monte o a valle nella catena delle cessioni o prestazioni” (§ 28).

Tale puntualizzazione assume oggi rilievo anche in considerazione dell’introduzione, nella normativa tributaria interna, dell’art. 7, comma 5-bis, del D. Lgs. n. 546/1992, che risponde all’esigenza di arginare l’applicazione più o meno indiscriminata, nel processo tributario, di principi di elaborazione giurisprudenziale derogatori del generale criterio di riparto dell’onere probatorio ora esaminato. Si pensi, ad esempio, all’utilizzo spesso discutibile dello strumento presuntivo: l’introduzione della nuova norma ha ingenerato in taluni (ma non nella Corte di Cassazione, come attestato dalle prime pronunce sul tema: si v. Cass. n. 31878/2022 e Cass. n. 6772/2023, proprio in tema di fatture per operazioni inesistenti) delle aspettative quasi millenaristiche in ordine a una oltremodo auspicata rimodulazione della distribuzione dell’onere probatorio, dato che le presunzioni scaturenti da orientamenti giurisprudenziali sono del tutto prive di ancoraggio normativo.

Ed in quest’ottica è ancor più interessante un passaggio della motivazione in cui la CGUE evidenzia quanto segue (§ 31): “Poiché il diritto dell’Unione non prevede norme relative alle modalità dell’assunzione delle prove in materia di evasione dell’IVA, tali elementi oggettivi devono essere stabiliti dall’autorità tributaria secondo le norme in materia di prova previste dal diritto nazionale. Tuttavia, tali norme non devono pregiudicare l’efficacia del diritto dell’Unione”. Inoltre (§ 33), “l’autorità tributaria che intende negare il beneficio del diritto a detrazione deve dimostrare in modo adeguato, conformemente alle norme in materia di prova previste dal diritto nazionale e senza pregiudicare l’efficacia del diritto dell’Unione, sia gli elementi oggettivi che provino l’esistenza dell’evasione stessa dell’IVA, sia quelli che dimostrino che il soggetto passivo ha commesso tale evasione o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento di tale diritto rientrava in detta evasione”.

Concludendo (§ 34): “Tale requisito della prova vieta, indipendentemente dal tipo di evasione o dai comportamenti esaminati, il ricorso a supposizioni o a presunzioni che abbiano l’effetto, confutando l’onere della prova, di violare il principio fondamentale del sistema comune dell’IVA costituito dal diritto a detrazione e, pertanto, l’efficacia del diritto dell’Unione”.

A fronte di quest’ultimo paragrafo, in cui si esclude espressamente il ricorso a fini probatori non solo a supposizioni (si tratta verosimilmente dei “semplici sospetti non suffragati dall’amministrazione tributaria nazionale quanto all’effettiva realizzazione delle operazioni economiche che hanno portato all’emissione di una fattura fiscale” di cui a CGUE 4 giugno 2020, SC C.F. SRL, C-430/19) ma anche a presunzioni, appare lecito chiedersi se la pronuncia in esame sia, in certa misura, idonea a incidere sulle regole interne in materia di prova, ed in particolare sulla possibilità di ricorrere tout-court alle presunzioni legali con valenza di elementi probatori. È infatti noto che nel nostro sistema la prova può essere fornita anche per presunzioni, purché connotate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza, operando in tale contesto il principio per cui “se è devoluta al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, violando i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi” (Cass. n. 10973/2017; id. n. 19352/2018).

Per concludere sui profili generali inerenti al riparto dell’onere probatorio, pertanto, la Corte dà continuità alla propria giurisprudenza di lungo corso. Ribadito che l’autorità tributaria è sempre tenuta a effettuare una valutazione globale degli elementi oggettivi e delle circostanze concrete del caso, i Giudici escludono che la stessa possa limitarsi a ritenere provata la frode sulla scorta della sola asserzione che l’operazione contestata rientrerebbe in uno schema di fatturazione circolare. Neanche appare sufficiente a dimostrare la partecipazione del soggetto passivo all’evasione la mera circostanza dell’intercorsa conoscenza interpersonale tra i soggetti commerciali partecipanti alla catena di scambi.

In tale cornice, dunque, l’Amministrazione può certamente chiedere che il soggetto passivo fornisca la prova di aver impiegato una maggiore diligenza in sede di verifiche finalizzate a escludere la propria compartecipazione a uno schema fraudolento, ma non può pretendere che lo stesso effettui verifiche particolarmente complesse e approfondite come quelle che possono condurre gli uffici erariali, funzionalmente preposti a tali attività.

Altro punto di particolare interesse è costituito dalla possibilità, per l’Amministrazione finanziaria, di fondare una contestazione ai fini IVA sulla ritenuta violazione di una normativa diversa da quella tributaria (nel caso di specie, la legislazione in materia di sicurezza della catena alimentare), anche in assenza di una precedente decisione dell’organo amministrativo competente alla sua constatazione. Sul punto il giudice del rinvio aveva sollevato due questioni pregiudiziali chiedendo se la direttiva 2006/112 relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, nonché il diritto a un equo processo sancito dall’art. 47 CDFUE e il principio della certezza del diritto ostino, in casi consimili, alla negazione del diritto a detrarre l’IVA.

La Corte, sul punto, è lapidaria. Rilevata l’irricevibilità manifesta delle questioni in relazione alla certezza del diritto, la pronuncia ha chiarito (in continuità con la sentenza Altic del 3 ottobre 2019, C-329/18) che la violazione delle disposizioni nazionali o europee relaive alla sicurezza della catena alimentare non rappresenta, di per sé, un elemento idoneo a consentire l’accertamento di una violazione di norme IVA; tuttavia “può costituire uno dei vari indizi dell’esistenza della stessa nonché un elemento che può essere preso in considerazione, nell’ambito della valutazione globale di tutti gli elementi e di tutte le circostanze di fatto del caso di specie, per dimostrare che il soggetto passivo ha partecipato a tale evasione, nonostante il fatto che la violazione di cui trattasi non sia stata previamente constatata dall’organo amministrativo competente a conoscere di una siffatta violazione”. Essenziale, a giudizio della Corte, è il fatto che tale elemento di prova, come ogni elemento di fatto o di diritto decisivo per l’esito del procedimento, possa essere contestato e discusso in contraddittorio dinanzi a un giudice, a salvaguardia del diritto a un equo processo.

Da ultimo viene affrontata la questione pregiudiziale avente ad oggetto la possibilità o meno di negare la detrazione dell’imposta stante la partecipazione a una frode contestata in base al fatto che il legale rappresentante del mandatario del soggetto passivo fosse venuto a conoscenza dei fatti costitutivi della stessa. È il tema dell’assimilabilità della conoscenza dei fatti costitutivi dell’illecito da parte di un soggetto terzo alla propria conoscenza degli stessi fatti: può il soggetto passivo essere ritenuto partecipe della frode in forza dell’assimilazione della conoscenza altrui di tali fatti alla propria?

Al riguardo la Corte si esprime in maniera affermativa, nonché particolarmente incisiva. Se è vero che un sistema di responsabilità oggettiva è inammissibile, il soggetto passivo è in ogni caso gravato da un onere di diligenza tale per cui “avrebbe dovuto sapere” che, acquistando il bene o il servizio, finiva col prendere parte a un’operazione fraudolenta finalizzata all’evasione d’imposta. Così facendo, il soggetto passivo “collabora con gli autori di detta evasione e ne diviene complice”, con la conseguenza che “una siffatta partecipazione integra una condotta colposa” di cui è chiamato a rispondere, non potendo invocare – come nel caso di specie – l’esistenza di un contratto di mandato o specifiche clausole dello stesso, poiché “ammettere che il soggetto passivo possa agire in tal modo faciliterebbe l’evasione e contrasterebbe così con l’obiettivo della lotta alle evasioni all’IVA”.

F.N.

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