La Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 6015/2023 pubblicata il 28 febbraio 2023 ha riconosciuto la validità della notifica, ad opera dell’Agente della Riscossione, dei propri atti anche da indirizzo PEC di mittenza differente da quello presente nei registri IPA. La decisione si colloca nel solco di un orientamento della Suprema Corte che tuttavia non sembra risolutivo della questione. Il caso Con l’Ordinanza n. 6015/2023 in commento la Suprema Corte è tornata ad affrontare la tematica, molto dibattuta nella giurisprudenza di merito, circa la validità della notificazione degli atti della riscossione effettuata da indirizzo PEC non presente nei pubblici registri (ed in particolare nei Registri IPA). Nel caso posto al vaglio della Suprema Corte, la società ricorrente aveva impugnato un’intimazione di pagamento con la quale veniva richiesto il pagamento di molteplici cartelle di pagamento precedentemente notificate. Il giudizio di primo grado si concludeva con l’accoglimento del ricorso, limitatamente alle cartelle di pagamento prive dell’estensione “.p7m” attestante la certificazione della firma. Nel successivo giudizio di appello la CTR della Basilicata aveva dichiarato estinte per intervenuta prescrizione alcune delle cartelle di pagamento sottese all’intimazione oggetto di impugnativa, nonché dichiarato il non luogo a procedere per altre cartelle poiché oggetto di autonomi giudizi impugnatori. La società ricorrente nel giudizio di legittimità impugnava la sentenza di merito per la parte residuale concernente le cartelle di pagamento non annullate nei precedenti gradi di merito, contestando in particolare: LA PRONUNCIA La Suprema Corte con la decisione in commento nel richiamare le conclusioni rese della Sezioni Unite con la Sentenza n. 15979 del 18 maggio 2022, ha ritenuto infondato il motivo di ricorso addotto dalla società ricorrente, affermando che “la notifica avvenuta utilizzando un indirizzo di posta istituzionale, non risultante nei pubblici elenchi, non è nulla, ove la stessa abbia consentito, comunque, al destinatario di svolgere compiutamente le proprie difese, senza alcuna incertezza in ordine alla provenienza ed all’oggetto”. La Suprema Corte, infatti, ha sostenuto come non sia applicabile a tali fattispecie la più stringente disciplina, richiamata nel ricorso della società, di cui all’articolo 3-bis comma 1 della legge 21 gennaio 1994. 53, prevista in tema di notifiche da parte degli avvocati. La disposizione testé rammentata, infatti, prevede che “La notificazione con modalità telematica si esegue a mezzo di posta elettronica certificata all'indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. La notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi”. La Suprema Corte, inoltre, ha evidenziato come una maggiore rigidità formale si debba applicare sul versante dell’indirizzo del destinatario, ma non anche per quanto concerne l’indirizzo del mittente. È stato rigettato inoltre l’ulteriore profilo di censura afferente alla mancata sottoscrizione digitale delle cartelle in formato “.p7m”, alla luce della “assenza di prescrizioni normative di senso diverso”[2]. La precisazione della Suprema Corte circa la diversa attenzione da dover porre all’indirizzo di destinazione rispetto a quello di invio, racchiude il nodo centrale sul quale ruota l’accesso dibattito nella giurisprudenza di merito. In tema di notificazione della cartella di pagamento, infatti, l’art. 26, comma 2 del d.P.R. n. 602/1973, prevede che “La notifica della cartella può essere eseguita, con le modalità di cui al decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, a mezzo posta elettronica certificata, all'indirizzo del destinatario risultante dall'indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata (INI-PEC), ovvero, per i soggetti che ne fanno richiesta, diversi da quelli obbligati ad avere un indirizzo di posta elettronica certificata da inserire nell'INI-PEC, all'indirizzo dichiarato all'atto della richiesta”. Dal dato testuale, dunque, sembrerebbe emergere la necessità che rientri nei registri pubblici esclusivamente l’indirizzo PEC del destinatario, mentre alcun obbligo in tal senso sembrerebbe derivare per quanto concerne l’indirizzo PEC di mittenza. Tuttavia, in molte decisioni della giurisprudenza di merito è stata dichiarata inesistente o nulla la notificazione di cartelle di pagamento avvenuta da indirizzi PEC non presenti nei registri IPA, evidenziando la necessità di una lettura costituzionalmente orientata dell’articolo 26, citato, che estenda medesimo obbligo di indicazione nei pubblici elenchi anche degli indirizzi PEC da cui viene disposto l’invio degli atti della riscossione. E tale considerazione muove dalla riscontrata presenza di varie disposizioni dell’ordinamento, tra cui l’art. 16-ter del D.L. n. 179/2012, nel quale viene fatto riferimento generalizzato all’obbligo di indicazione nei pubblici elenchi per la validità della notificazione per gli atti in materia civile, penale amministrativa, contabile e stragiudiziale a decorrere dal 15 dicembre 2013. Tornando al pronunciamento oggetto del presente contributo, le conclusioni rassegnate dalla S.C. muovono nel solco già tracciato dalla Sentenza Cass. n. 15192 del 16 luglio 2020, che ha limitato le ipotesi di inefficacia della notificazione alle sole situazioni in cui la parte non abbia effettivamente ricevuto la notifica dell’atto, ritenendo invece sanabili tutte le restanti situazioni patologiche in cui, pur in presenza di un vizio nell’iter di notificazione, il contribuente risulta nelle condizioni di conoscere la pretesa e poter contestare la stessa in modo tempestivo dinanzi agli organi giudiziari preposti (ritenendo, in pratica, applicabile la previsione processuale di cui all’articolo 156, comma 3 c.p.c. che dispone l’impossibilità di dichiarare la nullità di un atto se lo stesso abbia raggiunto il suo scopo). Vale a dire nelle situazioni in cui non risulta pregiudicato il suo diritto di difesa. L’orientamento che discende dalla pronuncia in commento, tuttavia non può ritenersi pacificamente acquisito e consolidato con particolare riferimento alla giurisprudenza di merito. Oltre al permanere di pronunciamenti in seno alla giurisprudenza di merito di senso opposto anche successivi ai recenti arresti di legittimità citati (si veda a titolo esemplificativo la recente sentenza n. 14/1/2023 resa dalla C.G.T. I grado di Reggio Emilia; o la Sentenza C.T.R. Firenze n. 918/06/2022[3]) infatti, vi sono ulteriori osservazioni che non possono essere sottaciute. Al riguardo, occorre evidenziare come la Sentenza n. 15979 del 18 maggio 2022 resa dalle Sezioni Unite, la cui massima è stata ripresa nell’Ordinanza in commento nel presente contributo, afferisce ad una situazione in parte diversa, poiché relativa alla tematica della notificazione di atti di natura processuale tra le parti di un processo (sui quali incombe sempre un obbligo di indicazione dei propri indirizzi presso elenchi pubblici riconosciuti quali Reginde, INIPEC e IPA per gli enti pubblici), mentre nel caso in esame la questione riguarda la disciplina della notificazione degli atti della riscossione. Va poi ulteriormente evidenziato come, sempre successivamente alla prefata sentenza a Sezioni Unite, sia stata la stessa Suprema Corte a constatare la necessità di porre la massima attenzione alla tematica della presenza nei registri IPA anche dell’indirizzo di partenza degli atti della riscossione con la Ordinanza interlocutoria n. 32891 depositata in data 8 novembre 2022, con cui è stata evidenziata la necessità di affrontare il tema con la massima importanza. In quella occasione, infatti, la Suprema Corte ha disposto il rinvio a nuovo ruolo e la trattazione in pubblica udienza della causa posta al proprio esame (riguardante la medesima tematica oggetto del presente contributo) osservando come “la questione dedotta nel presente giudizio riveste particolare rilevanza, testimoniata dai contrasti che emergono dall’esame delle numerose pronunzie rese sul punto dai giudici di prossimità (….)”[4]. Al di là della posizione assunta dalla Cassazione con l’Ordinanza in commento, le motivazioni ivi rassegnate non appaiono del tutto definitivamente risolutive del dibattito in corso. A.C. [1] In numerose occasioni le cartelle di pagamento (nonché gli atti successi quali le intimazioni di pagamento) sono state notificate dall’Agente della Riscossione tramite un indirizzo PEC (quale ad esempio noreply.lombardia.ipol@pec.agenziariscossione.gov.it) diverso da quello presente nei Registri IPA (i.e. protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it). [2] Solo per completezza espositiva, e senza entrare nel merito delle conclusioni ivi rassegnate in quanto non pertinenti all’economia del presente contributo, si evidenzia come siano stati rigettati anche i restanti motivi di ricorso proposti dalla ricorrente. In merito al secondo sopra brevemente cennato, lo stesso è stato dichiarato inammissibile dal Collegio adito. Parimenti, il terzo motivo addotto, relativo ad un generico riferimento al termine di prescrizione generalizzato dei tributi, viene ritenuto infondato e pertanto ribadito l’orientamento per il quale “per quanto concerne le imposte dirette, Irpef, IVA e Irap, in assenza di espressa previsione, si prescrivono nel termine ordinario decennale ex art. 2946 c.c. (…)” [3] Con la quale i Giudici aditi hanno ritenuto che “ciò che rende certo e identificabile l’indirizzo non è il nome utente antecedente il simbolo @ (…) bensì il dominio presente successivamente al simbolo @ ovvero, nel caso di specie, pec.agenziariscossione.gov” [4] Di tale causa non risulta alla data odierna sia stata depositata la sentenza a seguito della discussione in P.U. disposta con l’Ordinanza in parola.