Non si applica il termine dilatorio di 60 giorni per la presentazione di osservazioni al P.V.C. quando quest’ultimo sia posto a base dell’accertamento notificato ad un terzo

16 Febbraio 2023

La Cassazione, con l’ordinanza n. 4726/2023, ha espresso il principio di diritto per cui quando il p.v.c. emesso a conclusione delle indagini fiscali nei confronti di un soggetto, sia utilizzato come mero atto istruttorio ovvero come mera segnalazione nell’ambito di un accertamento svolto nei confronti di un terzo contribuente, quest’ultimo non può invocare ai fini dell’illegittimità dell’atto impositivo l’omessa concessione del termine dilatorio di 60 giorni previsto dall’art. 12, c. 7, della L. 212/2000.

Il caso

La vicenda trattata dalla Suprema Corte origina dalla notifica di un avviso di accertamento nei confronti della società ricorrente, alla quale venivano imputati maggiori ricavi non contabilizzati e per l’effetto veniva accertato un maggior reddito imponibile ai fini IRES, IRAP e IVA. In particolare, veniva contestata ex art. 37, c. 3 del d.P.R. 600/1973 l’interposizione soggettiva di una società terza, a cui erano formalmente riconducibili i maggiori ricavi accertati, poi imputati alla ricorrente sulla scorta della fittizietà del soggetto interposto. L’inesistenza e l’inoperatività di quest’ultimo era stata accertata dalla guardia di finanza all’esito di una verifica fiscale condotta con accessi presso il soggetto interposto, al quale era stato notificato apposito processo verbale di constatazione (“p.v.c.”); in sede di verifica erano quindi stati accertati i rapporti economici sussistenti tra la società interposta e la ricorrente, suffragati anche dal rinvenimento di pagamenti di denaro contante tra le due società.

Ai fini dell’imputazione dei ricavi generati dal soggetto interposto alla società ricorrente era stato quindi notificato un avviso di accertamento che si basava integralmente sulle risultanze della predetta verifica fiscale; perciò all’atto impositivo era stato allegato unicamente il pvc notificato alla società interposta.

A seguito dell’impugnazione dell’atto impositivo, dopo due gradi di giudizio sfavorevoli alla ricorrente, la controversia veniva rimessa al vaglio della Cassazione.

La pronuncia

Il ricorso proposto dalla società verteva innanzitutto sulla violazione dell’art. 12, c. 7, della L. 212/2000, da cui far derivare l’affermata illegittimità dell’avviso di accertamento poiché notificato senza la concessione ed il rispetto del termine dilatorio di 60 giorni per la presentazione di osservazioni e richieste al p.v.c.

La Corte, tuttavia, ha osservato che la destinataria del p.v.c. non fosse la ricorrente, bensì il soggetto interposto; sicchè, nei confronti della ricorrente, quel verbale costituiva mero atto istruttorio esterno rispetto al procedimento accertativo che l’ha riguardata direttamente: in altre parole, il p.v.c. fungeva da mera segnalazione ed innesco per il successivo accertamento svolto nei confronti della ricorrente. In considerazione di tale fatto i giudici di legittimità hanno rigettato le doglianze della società sul punto, affermando il seguente principio di diritto: “In materia di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, il termine dilatorio di cui all’art. 12, co. 7, l. n. 212/2000 decorre da tutte le possibili tipologie di verbali di accesso, indipendentemente dal loro contenuto e denominazione formale, purché le operazioni concluse costituiscano esercizio di attività ispettiva svolta dall’ Amministrazione nei confronti del contribuente sottoposto a verifica e destinatario dell’accertamento, non applicandosi il medesimo termine con riferimento ad un p.v.c. redatto a conclusione dell’accesso presso una terza società che integri, rispetto al contribuente, un atto istruttorio “esterno” rispetto al procedimento accertativo che l’ha attinto direttamente”.

Nella stessa sede, la Cassazione ha altresì riaffermato il principio per cui quando si lamenta l’illegittimità dell’atto impositivo per omesso rispetto del termine dilatorio di cui all’art. 12, c. 7 della L. 212/2000, è onere del contribuente fornire la c.d. “prova di resistenza”, esplicitando le ragioni che avrebbe potuto opporre all’Amministrazione se il termine dilatorio fosse stato concesso e che avrebbero impedito, se valutate in una prospettiva ex ante, l’emanazione dell’atto impositivo. Nel caso di specie, anche ove fosse stato applicato l’art. 12, c. 7, la contribuente non aveva dedotto alcuna ragione in tal senso.

In ultima istanza, la ricorrente ha dedotto l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui non ha adeguatamente motivato l’accertamento dell’interposizione ed i rapporti economici sussistenti tra le due società. Nello scrutinio del dedotto vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza impugnata, la Corte, richiamando alcuni illustri precedenti, ha chiarito che tale vizio ricorre “allorquando il giudice di merito, pur indicando gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, non ne renda un'approfondita disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento”. Sulla scorta di tali considerazioni, i giudici di legittimità hanno ritenuto di accogliere le doglianze della ricorrente e cassare con rinvio la sentenza impugnata, giacchè quest’ultima – nell’affermare l’interposizione – aveva dato rilievo in via apodittica e acritica a singole circostanze emergenti dalla verifica fiscale (i pagamenti di denaro contante o non meglio precisati rapporti economici tra le società) senza tuttavia dedurne o quantomeno ipotizzarne un collegamento tale da rivelare una situazione di fatto difforme da quella formale.

A.P.

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