Con l’ordinanza n. 33568 pubblicata lo scorso 15 novembre, la Cassazione torna a pronunciarsi sul tema dell’inerenza del costo sotto il profilo del riparto dell’onere della prova, ribadendo l’onere incombente sul contribuente della dimostrazione dell’esistenza del costo e della sussistenza dei presupposti di deducibilità. A tal proposito, la Suprema Corte conferma il suo orientamento, affermando l’irrilevanza della modifica apportata dalla Legge n. 130/2022 all’art. 7 del D.lgs. 546/92 con l’introduzione del comma 5-bis in tema di riparto dell’onere probatorio. Il fatto La vicenda origina dalla notifica ad una società di un avviso di accertamento, con il quale l’Agenzia delle Entrate riprendeva a tassazione un maggior reddito imponibile risultante dalla presunta indeducibilità di costi relativi a provvigioni passive. A parere dell’Amministrazione finanziaria, l’elevata percentuale delle provvigioni rispetto ai ricavi, applicata dalla contribuente ai suoi agenti, non trovava adeguata giustificazione nei documenti contrattuali né tantomeno rispondenza alla consuetudine e agli usi invalsi nel settore di riferimento. L’atto veniva impugnato dalla società e, dopo un esito favorevole del giudizio di primo grado, la CTR competente confermava le ragioni della contribuente. A parere dei giudici di merito, infatti, l’Ufficio nel mettere in dubbio l’inerenza dei costi, avrebbe dovuto fornire una più solida prova dell’asserita sproporzione, non potendosi ritenere ai fini dell’indeducibilità sufficiente «l’esistenza di usi in senso contrario ovvero la pretesa di documentare contratti per i quali l'ordinamento non prevede alcun onere formale». Avverso la decisione della CTR, che ne respingeva l’appello, l’Agenzia proponeva ricorso per Cassazione lamentando la non corretta applicazione del riparto dell’onere probatorio in tema di inerenza, sull’assunto che a fronte dei propri rilievi avrebbe dovuto gravare sulla contribuente l’onere di dimostrarne la strumentalità e la coerenza economica dei costi rispetti ai ricavi. La decisione La Suprema Corte, nel decidere la controversia, sottolinea in principio la natura puramente qualitativa del giudizio di inerenza. Come peraltro già ampiamente chiarito dalla giurisprudenza di legittimità[1], l’inerenza esprime una correlazione del costo all’attività d’impresa produttiva del reddito soggetto a tassazione, sicché ai fini della deducibilità è sufficiente che vi sia un nesso dei costi non già ai singoli ricavi, bensì all’attività imprenditoriale nel suo complesso. Un siffatto principio non rinviene, del resto, alcun fondamento normativo – men che meno nella previsione di cui all’art. 109, comma 5, del Tuir, a discapito di quanto sostenuto in passato – operando invece su un livello “preventivo” più alto, immanente allo stesso concetto di reddito di impresa. Benché la valutazione di inerenza attenga quindi ad un profilo qualitativo, fattori quantitativi quali l’antieconomicità e l’incongruità della spesa ben possono essere indici rivelatori del difetto di inerenza. Spostando l’angolo visuale al correlato profilo del riparto della prova, la Corte non si discosta affatto dall’orientamento giurisprudenziale consolidatosi in epoca antecedente alla riforma tributaria, confermando la sussistenza in capo al contribuente di un onere originario che prescinde, dunque, dalle contestazioni dell’Amministrazione finanziaria. Rispetto agli elementi di fatto addotti dal contribuente, l’Ufficio accertatore, nell’emettere l’atto impositivo, ben potrà contestare l’indeducibilità della spesa, ma nel farlo, sottolinea la Corte, sarà a sua volta tenuto a fornire prova a sostegno della contestazione. È in tale prospettiva, e dunque su un piano strettamente probatorio, che viene a configurarsi un possibile nesso tra giudizio quantitativo e giudizio qualitativo. Come ben evidenziato dagli Ermellini in sentenza, «l'antieconomicità di un costo - intesa, in particolare, come sproporzione fra la spesa e l'utilità che ne deriva, avuto riguardo agli ulteriori dati contabili dell'impresa - può fungere da elemento sintomatico del difetto di inerenza», ossia del fatto che il costo non sia in realtà correlato alla produzione del reddito. Laddove dunque l’Amministrazione finanziaria decida di operare su un piano quantitativo, rettificando la congruità della spesa, l’onere probatorio ricadrà, in prima battuta sull’Ufficio, tenuto a fornire prova della gravità, precisione e concordanza degli elementi presuntivi posti a fondamento della contestazione, incombendo poi sul contribuente la necessità di una prova più “convincente” in ordine alla regolarità ed economicità delle operazioni effettuate. Tanto premesso, permane in ultima istanza l’impressione che in tema di onere della prova, la riforma così come ridelineata dai giudici di legittimità abbia mancato l’obiettivo. Invero, pur non entrando nel merito della questione, l’ordinanza in commento, avvalorando l’inversione dell’onere della prova in tema di inerenza, manifesta - sia pur implicitamente -un allineamento di vedute rispetto alla lettura del nuovo comma 5-bis dell’art. 7 del D. Lgs. n. 546/1992, fornita dagli Suprema Corte nella recente ordinanza n. 31878/2022. In tale pronuncia, la Cassazione nell’affrontare la tematica in via del tutto incidentale, sminuisce nella chiosa finale l’interpretazione innovativa che i primi commentatori avevano apprezzabilmente fornito della neonata disposizione. La stessa, si legge manifestamente in ordinanza, «non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia», ovverosia non scalfisce nella sostanza la sopravvivenza del principio di matrice giurisprudenziale della vicinanza della prova, che deroga agli ordinari criteri di riparto di cui all’art. 2697 del codice civile. G.S. [1] (cfr Cassazione nn. 10269/2017, 21184/2014 e 13300/2017).