Con l’ordinanza del 13 settembre 2022, n. 26920 la Corte di Cassazione si è espressa in merito ad un’istanza di risarcimento dei danni cagionati da lite temeraria ex art. 96 c.p.c. promossa contro l’Amministrazione finanziaria. Benché proposta al di fuori del giudizio di cognizione, l’istanza è stata accolta, sul presupposto che al tempo in cui si era svolto il giudizio la disciplina processual-tributaria non ammettesse l’esperimento di siffatto istituto. La Suprema Corte ribadisce l’orientamento per cui il risarcimento può essere chiesto al Giudice tributario per comportamenti dell’Ufficio connotati da mala fede o colpa grave posti in atto in sede amministrativa. Il caso La vicenda trattata dalla Suprema Corte origina da un contenzioso tributario avviato prima del 1992, allorquando la disciplina del processo tributario era regolata dal d.P.R. 636/1972. Il contribuente aveva impugnato un avviso di accertamento sintetico con il quale, sulla scorta di una presunzione di reddito correlato al possesso di diverse autovetture, l’Ufficio aveva accertato un maggior imponibile. Dopo un primo grado di giudizio favorevole, le ragioni del contribuente erano state nuovamente accolte in sede d’appello, con sentenza passata in giudicato. Separatamente, il contribuente proponeva un nuovo giudizio finalizzato alla richiesta del risarcimento dei danni da lite temeraria ex art. 96 c.p.c. Tale domanda non era stata proposta congiuntamente al ricorso per impugnazione, posto che la normativa processuale al tempo vigente precludeva l’applicazione al rito tributario delle norme in materia di spese e responsabilità di lite di cui agli artt. 90-97 c.p.c.[1] Pertanto, entrata in vigore la riforma della giustizia tributaria di cui al d.lgs. 546/1992[2], il contribuente aveva promosso ex novo un giudizio per ottenere il risarcimento dei danni morali e materiali asseritamente subiti dall’emanazione del predetto avviso di accertamento, nonché causati dal successivo contenzioso originato da una pretesa impositiva di cui era stata indefettibilmente accertata l’illegittimità. I giudizi di merito svolti dinanzi alle CTP e CTR competenti si erano conclusi con verdetto sfavorevole al contribuente, sul presupposto che la tutela apprestata dall’art. 96 c.p.c. non poteva essere azionata in sede diversa dal processo nel quale era stata fatta valere la domanda principale. Contro la pronuncia emessa in grado di appello, il contribuente aveva promosso ricorso per cassazione denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 96 c.p.c. e 39 d.P.R. 636/1972, in quanto i giudici regionali non avevano tenuto conto del fatto che la predetta istanza non era proponibile in base al precedente impianto normativo. La pronuncia Investita della questione, la Corte di Cassazione procede con una preliminare trattazione sull’operatività dell’art. 96 c.p.c. nel processo tributario. In particolare si afferma che l’art. 96 “a) è applicabile al processo tributario, in virtù del generale rinvio di cui al D.Lgs. 546/1992, art. 1, comma 2 (…); b) regola tutti i casi di responsabilità risarcitoria per atti o comportamenti processuali, ponendosi con carattere di specialità rispetto all’art. 2043 c.c. (…); c) (…) disciplina (…) un fenomeno endoprocessuale, prevedendo che la domanda è proponibile solo nello stesso giudizio dal cui esito si deduce l’insorgenza della detta responsabilità, non solo perché nessun giudice piò giudicare la temerarietà processuale meglio di quello stesso che decide sulla domanda che si assume, per l’appunto, temeraria, ma anche e soprattutto perché la valutazione del presupposto della responsabilità processuale è così strettamente collegata con la decisione di merito da comportare la possibilità, ove fosse separatamente condotta, di un contrasto pratico di giudicati”. Tale ultima considerazione sarebbe, di regola, preclusiva per la proponibilità autonoma della domanda di risarcimento di cui sopra. Nondimeno, i giudici di legittimità, censurando la decisione dei giudici regionali, affermano la rilevanza della preclusione alla domanda di risarcimento, quale scaturiva dal precedente impianto normativo. Stante il principio secondo cui “l’istanza di condanna al risarcimento dei danni ex art. 96, c. 2, c.p.c. deve essere proposta, di regola, in sede di cognizione, ossia nel giudizio presupposto, ove quel giudizio sia ancora pendente (…) qualora, invece, sussista un’ipotesi di impossibilità di fatto o di diritto all’articolazione della domanda in tale sede, ne è consentita la proposizione in un giudizio autonomo”. Sulla base di tale motivo, evidentemente ispirato all’effettività della tutela giurisdizionale offerta dall’art. 24 Cost., la Corte ha accolto il ricorso, formulando il seguente principio di diritto: “l'istanza di condanna al risarcimento dei danni ex art. 96, secondo comma, c.p.c. non può essere proposta in sede di cognizione nel giudizio presupposto, qualora sussista un'ipotesi di impossibilità di fatto o di diritto all'articolazione della domanda in tale sede – come allorquando i gradi di merito del giudizio di merito si siano esauriti ancor prima dell’insediamento delle commissioni tributarie e provinciali, in base al combinato disposto dell’art. 80 d.lgs. n. 546/1992 e del d.m. 26.4.1996 - nel qual caso ne è consentita la proposizione in un giudizio autonomo”. Le riflessioni dei giudici di legittimità si fanno apprezzare sotto molteplici profili. Posto che, come già accennato, la soluzione del caso concreto risulta conforme alle prerogative costituzionali del contribuente, il profilo di particolare novità della pronuncia è costituito dalla circostanza di aver proposto, dinanzi ad una commissione tributaria, una domanda al risarcimento del danno che fosse slegata dall’impugnazione di uno specifico atto. Ciò in evidente contrapposizione anche all’art. 18 del D.lgs. 546/1992 che non ammette altro atto introduttivo del giudizio tributario se non il ricorso che, a pena di inammissibilità, rechi l’indicazione dell’atto impugnato e dei motivi di censura rispetto al medesimo. Tale circostanza depone nei termini di un’attualizzazione del processo tributario, funzionale non solo a vagliare la legittimità degli atti impositivi, ma a giudicare tout court il rapporto tra amministrazione finanziaria e contribuente. La pronunci in commento consente, infatti, di mettere in discussione il tradizionale paradigma del processo tributario come giudizio a carattere squisitamente “impugnatorio”. A.P. [1] In ragione di quanto stabilito dall’art. 39 del d.P.R. 636/1972 per cui “al procedimento dinanzi alle commissioni tributarie si applicano, in quanto compatibili con le norme del presente decreto e delle leggi che disciplinano le singole imposte, le norme contenute nel libro I del codice di procedura civile, con esclusione degli articoli da 61 a 67, dell'art. 68, primo e secondo comma, degli articoli da 90 a 97”. [2] Il decreto vigente, in radicale contrapposizione alla disciplina di cui al d.P.R. 636/1972, prevede all’art. 15, c. 2bis, che “si applicano le disposizioni di cui all'articolo 96, commi primo e terzo, c.p.c.”.