Abstract Con l’ordinanza del 10 giungo 2022, n. 18704 la Corte di Cassazione ha ribadito la legittimità delle indagini bancarie compiute ai danni dei soci di una S.p.A. a ristretta base sociale, ai fini della rettifica del reddito della società. Ciò in apparente antitesi con quanto emerge dall’art. 32, c. 1 del d.P.R. 600/1973 che, attribuendo all’Ufficio le prerogative di accesso ai rapporti bancari del contribuente, pare circoscrivere tale facoltà ai conti correnti del verificato (ossia la società) o, al più, a quelli del suo rappresentante legale. Il caso La vicenda origina da un avviso di accertamento, relativo all’anno di imposta 2003, notificato ad una S.p.A., con il quale veniva rettificato il reddito in ragione dei versamenti e prelievi non giustificati avvenuti sui conti correnti della società medesima nonché dei soci, legati tra loro da vincoli di stretta parentela. L’avviso era stato impugnato dalla società che aveva denunciato, tra le altre cose, la mancata allegazione all’atto impositivo dell’autorizzazione prescritta dall’art. 32, c.1 n. 7, d.P.R. 600/73[1] e la mancata prova, da parte dell’Ufficio, sulla riconducibilità alla società delle movimentazioni bancarie avvenute sui conti dei soci. Nel contenzioso che seguiva l’impugnazione, la CTP accoglieva il ricorso della contribuente in virtù dell’omessa allegazione della predetta autorizzazione all’avviso di accertamento. All’esito del giudizio di appello, la CTR, sebbene ritenesse non necessaria l’allegazione della autorizzazione, annullava l'accertamento ritenendolo infondato nel merito, mancando la prova (che avrebbe dovuto fornire l’Agenzia) che i conti dei soci fossero stati utilizzati per l'attività societaria. L’Ufficio proponeva quindi ricorso per Cassazione sulla base di un unico motivo di impugnazione: la violazione e la falsa applicazione del predetto art. 32 e dell’omologo art. 51 del d.P.R. 633/1972. Resisteva la società con ricorso incidentale, riproponendo il motivo circa la necessaria allegazione del provvedimento autorizzativo dell’indagine. La pronuncia Valutando prioritariamente la questione afferente alla violazione dell’art. 32 da parte della CTR (allorchè essa ha ritenuto che l’onere probatorio di riconducibilità delle movimentazioni dei soci alla società ricadesse sull’Agenzia) la Corte di cassazione ritiene il motivo fondato. In particolare, respingendo le ragioni della contribuente su un’applicazione circoscritta della norma, i giudici di legittimità affermano che “secondo la consolidata interpretazione giurisprudenziale la disciplina richiamata non prevede alcuna limitazione all'attività di indagine volta al contrasto dell'evasione fiscale, non limitando l'analisi ai soli conti correnti bancari e postali o ai libretti di deposito intestati esclusivamente al titolare dell'azienda. L'accesso ai conti intestati formalmente a terzi, e le verifiche finalizzate a provare per presunzioni la condotta evasiva e la riferibilità alla società delle somme movimentate sui conti intestati ai soci, ben possono essere giustificati da alcuni elementi sintomatici quali il rapporto di stretta contiguità familiare tra essi , incombendo in ogni caso sulla società contribuente la prova che le ingenti somme rinvenute sui conti dei soci della società a ristretta base familiare non siano ad essa riferibili. Solo nel caso in cui il titolare del conto sia formalmente "terzo", non legato in alcun modo apparente alla società sarà necessario, per l'Amministrazione, provare (…) che tal "terzietà" è solo apparente, fungendo il soggetto da mera testa di legno del contribuente”. Inoltre, ”in ipotesi di società a ristretta base familiare, l'Ufficio finanziario può utilizzare (…) le risultanze di conti correnti bancari intestati ai soci, imputando alla medesima società le operazioni ivi riscontrate tenuto conto anche della relazione di parentela che lega i singoli partecipanti alla ristretta base sociale, circostanza idonea a far presumere la sostanziale sovrapposizione degli interessi personali e societari, nonché ad identificare in concreto gli interessi economici perseguiti dalla società con quelli stessi dei soci, rimanendo comunque la possibilità per la società di dare la prova contraria . Tali legami familiari, proprio perché gli stessi hanno anche agito unitariamente sotto lo schermo sociale, costituiscono elementi indiziari che assumono consistenza di prova presuntiva legale, ove il soggetto formalmente titolare del conto non sia in grado di fornire indicazioni sulle somme prelevate o versate”. Nel caso di specie, infatti, tra i soci erano in corso stretti vincoli parentali e questi non erano riusciti a giustificare adeguatamente i movimenti sui propri conti. Degna di nota è l’affermazione dei giudici per cui a tali conclusioni non osta il divieto di doppia presunzione. La Corte, al riguardo, afferma che tale divieto non trova riscontri normativi nell’ordinamento. Tuttavia, ancorché fosse esistente, esso non opererebbe nel caso di specie, giacché il divieto in ipotesi precluderebbe soltanto l’innesto di una presunzione semplice su un’altra presunzione semplice. Al contrario, la circostanza per cui prelevamenti e versamenti non giustificati concorrano al reddito del contribuente costituisce una presunzione legale, agevolmente innestabile sulla presunzione semplice di riconduzione alla società dei redditi formalmente imputati ai soci. La Cassazione afferma quindi che la CTR “non poteva addossare alla Agenzia di fornire la prova che tali conti erano utilizzati dalla società, ma al contrario spettava ad essa società dimostrare che tali conti erano a lei estranei, tenendo conto della presunzione applicabile nel caso in esame. Non essendo stato correttamente applicato l'onere della prova come previsto dalla legge, determinandosi quindi una violazione di legge, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Ctr Lazio in diversa composizione che provvederà anche alle spese di questo grado di legittimità”. Quanto al controricorso della società, afferente la necessaria allegazione dell’autorizzazione all’avviso di accertamento, questo viene rigettato. La Corte afferma sul punto che, se addirittura la mancanza assoluta di autorizzazione costituisce una irritualità che non inficia l’accertamento[2], tanto più l’omessa allegazione all’atto impositivo non potrà determinare effetti[3]. L’ordinanza in commento non introduce concetti innovativi ponendosi nel solco dell’orientamento consolidato dei giudici di legittimità. Tuttavia, alcune affermazioni della Cassazione appaiono discutibili. In particolare, se è pur vero che l’art. 32 prevede una presunzione legale relativa di concorrenza nell’imponibile del contribuente degli importi di prelevamenti e versamenti ingiustificati[4] e da tale presunzione legale deriva l’inversione dell’onere probatorio, lo stesso non può dirsi per la presunzione semplice di riconducibilità alla società a ristretta base dei movimenti bancari dei soci. La sussistenza di un legame familiare stretto è certamente un elemento indiziario da non sottovalutare, ma occorre chiedersi se questo può essere sempre da solo sufficiente a fondare una prova presuntiva. E soprattutto se ciò possa di per sé determinare l’inversione dell’onere probatorio di cui parla la Cassazione (ossia il fatto che incomba sulla società dover provare che i conti correnti, formalmente intestati ad altri soggetti, siano alla stessa estranei). A.P. [1] Autorizzazione che, ai fini del regolare svolgimento delle indagini bancarie, deve essere preventivamente fornita dal direttore regionale dell’Agenzia dell’Entrate o dal comandante regionale della Guardia di Finanza. [2] A differenza del processo penale, per cui l’art. 191 c.p.p. preclude l’utilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, nel contenzioso tributario non vi è una norma omologa. [3] Nel caso di specie, infatti, l’autorizzazione all’indagine bancaria era stata ritualmente concessa e – pur non essendo allegata – era citata per estremi nell’avviso di accertamento. [4] Semprechè si superino le soglie minime previste dallo stesso art. 32, c. 1, n. 2 d.P.R. 600/73 (prelevamenti o versamenti per importi superiori a euro 1.000 giornalieri e, comunque, a euro 5.000 mensili).