Abstract Con l’ordinanza emessa il 20 giugno 2022, n. 19739 la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla regola in base alla quale, in presenza di partecipazioni qualificate, i redditi dei fondi di investimento immobiliare vengono imputati per trasparenza ai beneficiari. Ai fini del calcolo della sussistenza di una partecipazione qualificata, si tiene conto anche delle quote detenute dai familiari del contribuente. I giudici hanno affermato la natura di presunzione relativa di tale norma e la sua connotazione antielusiva. I principi espressi, di indubbio spessore, potrebbero essere applicati in un ampio novero di fattispecie analoghe. Il caso La vicenda origina da un’istanza di rimborso presentata da una contribuente in relazione all’imposta sostitutiva prevista dall’art. 32, c. 4bis, del d.l. 78/2010. La norma disciplina un regime transitorio di imponibilità per i titolari, alla data del 31 dicembre 2010, di quote di partecipazione a fondi immobiliari chiusi. I predetti soggetti, se titolari di una partecipazione superiore al 5% del fondo, erano tenuti a corrispondere un’imposta pari al 5% del valore medio delle quote possedute nell’anno di imposta 2010. Per il computo delle percentuali di partecipazione al fondo si teneva conto anche delle partecipazioni detenute direttamente o indirettamente per il tramite di società controllate, di società fiduciarie o per interposta persona e per il tramite di familiari[1]. Nel caso di specie, la contribuente era personalmente titolare di una partecipazione del 2,43%, ma, cumulando le quote detenute dai familiari della medesima, veniva superata la soglia rilevante ai fini dell’imposta. A fronte del diniego opposto sull’istanza di rimborso, la contribuente presentava ricorso alla commissione tributaria provinciale (“CTP”) [2], la quale rigettava il ricorso. Al contrario, la Commissione tributaria regionale (“CTR”) accoglieva l’appello della contribuente, sul presupposto della carenza motivazionale del diniego impugnato. In particolare, la CTR affermava l’insussistenza di elementi fattuali che giustificassero, in prospettiva antielusiva, il cumulo delle quote di titolarità personale della contribuente con quelle dei relativi familiari. Avverso la sentenza della CTR l’Ufficio promuoveva ricorso per cassazione. La pronuncia La Corte di Cassazione afferma che la prescrizione per cui, quindi, debba tenersi conto delle partecipazioni detenute dai familiari altro non è che una presunzione di possesso per interposta persona. Tuttavia, si tratta di una presunzione relativa. Ciò si deduce in base ad una lettura costituzionalmente orientata della norma “ai sensi dell’art. 3 e 53 Cost., in quanto, nel nostro ordinamento, il contribuente è la singola persona fisica e non il gruppo familiare, sicché l’aggregazione delle partecipazioni familiari, con aggravio di imposta, si giustifica solo se strumentale a finalità elusive e, cioè, alla disaggregazione soltanto fittizia e non reale di un patrimonio unitario”. Sebbene l’art. 32 non imponga all’Ufficio di verificare caso per caso se la titolarità formale delle partecipazioni in capo ai familiari risponda a finalità elusive, nondimeno è necessario, in sede di istanza di rimborso, verificare alla luce della concreta situazione se tale titolarità sia apparente o reale. Sotto tale profilo, la Corte di Cassazione conferma la conclusione della CTR la quale aveva accolto le ragioni del contribuente sulla base del fatto che la detenzione delle quote del fondo da parte dei familiari era effettiva e non mirava alla realizzazione di finalità elusive. Sulla scorta di tali argomenti, la Cassazione ha quindi rigettato il ricorso dell’Ufficio. La tesi espressa dai giudici di legittimità con l’ordinanza in commento ben si presta a trovare applicazione anche in altre fattispecie in cui la detenzione di partecipazioni da parte di altri soggetti concorre a determinare effetti fiscalmente rilevanti per il singolo contribuente. È sufficiente fare riferimento a tutte le ipotesi che, nel disciplinare fenomeni fiscalmente rilevanti, fanno rinvio all’art. 2359 c.c., per il quale ai fini dell’integrazione del controllo di diritto o di fatto di una società “si computano anche i voti spettanti a società controllate, a società fiduciarie e a persona interposta”. Un primo esempio è dato dalla disciplina ordinaria in tema di fondi di investimento immobiliare. Tale disciplina prevede l’imputazione per trasparenza, ai quotisti titolari di una partecipazione superiore al 5% del patrimonio del fondo, dei redditi realizzati da quest’ultimo. Al contrario, per i quotisti titolari di partecipazioni inferiori alla predetta soglia, è applicata la ritenuta del 26% prevista dall’art. 7 del d.l. 25 settembre 2001, n. 351. Anche in base a tale disciplina ordinaria, così come per il regime transitorio esaminato dalla Corte di Cassazione, nel conteggiare la partecipazione detenuta si considerano anche le partecipazioni detenute per il tramite di familiari. Un altro esempio concreto è dato dalla disciplina CFC di cui all’art. 167 TUIR e dalla disciplina dell’esterovestizione societaria di cui all’art. 73, cc. 5bis e 5ter del medesimo testo unico. È inoltre da osservare come, sulla scorta dell’interpretazione offerta dai giudici di legittimità, la prescrizione di cumulo delle partecipazioni del contribuente con quelle degli altri familiari di cui all’art. 32, c. 3-bis, si connoti nei termini di norma antielusiva specifica. Analogamente ad altre norme con caratteristiche similari (si vedano l’art. 84, c. 3 e l’art. 172, c. 7 TUIR) il contribuente potrebbe quindi proporre interpello disapplicativo ex art. 11, c. 2, L. 212/2000 per evitare il cumulo predetto, attestando la titolarità reale e non apparente delle partecipazioni da parte dei familiari. A.P. – F.N. [1] Si considerano familiari i soggetti individuati dall’art. 5, c. 5, del d.P.R. 917/1986 (TUIR), vale a dire il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo grado. [2] La CTP, peraltro, sollevava la questione di legittimità costituzionale della norma in argomento, della quale la contribuente denunciava l’illegittima irretroattività. La Corte Costituzionale, tuttavia, con sentenza emessa l’11 novembre 2015, n. 231 dichiarava inammissibili le questioni sollevate e successivamente il ricorso veniva rigettato dalla CTP. In particolare, la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili tutte le questioni sollevate in relazione all’art. 32, c. 4bis, del d.l. 78/2010, per il divieto di sindacare le scelte discrezionali del legislatore attraverso un intervento manipolativo non costituzionalmente obbligato. La Corte ha infatti affermato che, posta la natura transitoria della norma, laddove essa fosse stata dichiarata incostituzionale avrebbe reso esenti da qualunque imposizione gli eventuali redditi generati prima del passaggio al nuovo regime fiscale di cui ai precedenti commi 3-bis e 4, con l’effetto di creare un’irragionevole disparità di trattamento tra i titolari di partecipazioni qualificate e gli altri.