Abstract Con ordinanza n. 502 del 10 gennaio 2022, la Suprema Corte ha ribadito il principio secondo cui è precluso al giudice tributario l’esercizio del potere amministrativo sostanziale spettante all’Amministrazione finanziaria. Il giudice tributario deve limitarsi a verificare la legittimità dell’atto impositivo senza poter sostituire, alla pretesa impositiva azionata dall’Ufficio, una nuova pretesa impositiva, pena il vizio di ultra petizione. Il caso La controversia sottoposta all’attenzione della Corte di cassazione trae origine dalla notifica alla S. s.r.o. (la “Società”), società di diritto polacco con sede nella Repubblica slovacca, di tre avvisi di accertamento con cui l’Agenzia delle Entrate (“AdE”) contestava alla stessa la residenza effettiva in Italia per gli anni dal 2005 al 2007 (c.d. “esterovestizione”). Per l’effetto, l’Ufficio riprendeva a tassazione i redditi d’impresa dichiarati dalla Contribuente al fisco slovacco per gli anni in questione. La Società impugnava gli atti impositivi innanzi alla competente Commissione Tributaria Provinciale che accoglieva il ricorso sul rilievo che la stessa avesse realmente sede in Slovacchia. Tuttavia, all’esito del giudizio di appello la Commissione tributaria regionale (“CTR”) del Veneto accoglieva il gravame dell’Ufficio e confermava la legittimità degli atti impositivi. In particolare, la CTR fondava la propria decisione su elementi fattuali indicatori della sussistenza nella specie di una stabile organizzazione nel territorio nazionale. Avverso la decisione della CTR, la Società proponeva ricorso per Cassazione. Il ricorrente assumeva come il giudice d’appello avesse arbitrariamente sostituito la pretesa impositiva dell’Ufficio basata sull’asserita esterovestizione ex art. 73, co. 3, Tuir e concernente la tassazione di tutti i redditi prodotti dalla società, con una differente pretesa impositiva basata invece sui presupposti della stabile organizzazione ai sensi dell’art. 162 del Tuir, con conseguente tassazione dei soli redditi prodotti in Italia. La valutazione di legittimità dell’avviso di accertamento operata dalla CTR si basava quindi su presupposti del tutto divergenti da quelli su cui si fondavano gli atti impositivi. La pronuncia La Cassazione, investita della questione, ha ritenuto fondato il ricorso della Società. Il giudice di secondo grado, chiamato a vagliare l’esistenza dei presupposti dell’esterovestizione, secondo la Suprema Corte, aveva svolto il proprio accertamento su elementi attinenti all’esistenza di una stabile organizzazione incorrendo nel vizio di ultra petizione. Il concetto di “esterovestizione”, infatti, designa l’artificiosa localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, al solo fine di godere del trattamento fiscale più vantaggioso con conseguente esercizio abusivo della libertà di stabilimento. Tale fattispecie è regolata dall’art. 73, co. 3, del Tuir ai sensi del quale “Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell'amministrazione o l'oggetto principale nel territorio dello Stato”. Nel caso di specie, poi, assumeva rilievo la Convenzione contro le doppie imposizioni Italia-Repubblica Cecoslovacca che all’art. 4 fornisce la definizione di soggetto residente. La medesima norma al paragrafo 3 detta le c.d. tie-breaker rule per eliminare i casi di doppia imposizione. In particolare, ai fini dell’individuazione della residenza fiscale costituisce criterio dirimente l’individuazione della localizzazione della sede effettiva della società, intesa come “il luogo deputato per l’accentramento degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e dell’impulso dell’attività dell’ente”. Nella circostanza in cui la sede effettiva di una società, formalmente residente all’estero, venga individuata in Italia, la società si considera ivi residente e quindi soggetta ad imposizione in Italia. La CTR, invece, aveva eseguito l’indagine sulla residenza fiscale della ricorrente in base ai parametri previsti dall’art. 162 Tuir, che disciplina il fenomeno della stabile organizzazione costituita da “una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa esercita in tutto o in parte la sua attività nel territorio dello Stato”, nonché dell’art. 5 della predetta Convenzione, anch’esso riferito alle stabili organizzazioni, concludendo per la sussistenza in Italia dell’esistenza di una stabile italiana della società estera. Ne conseguiva l’assoggettamento a tassazione della sola porzione di reddito prodotto in Italia. Il giudice di merito aveva, quindi, fondato la legittimità della pretesa esercitata dall’AdE in forza di presupposti essenzialmente divergenti rispetto a quelli su cui si basavano gli atti impositivi incorrendo perciò nel vizio di ultra petizione. L’esterovestizione, infatti, postula la reale residenza della società in Italia; la stabile organizzazione, invece, presuppone la sussistenza di una residenza all’estero. Sulla scorta di quanto precede, la Suprema Corte ha accolto il ricorso della Società e cassato la sentenza con rinvio. A parere dei giudici di legittimità, il compito del giudice tributario è esclusivamente limitato alla verifica della legittimità dell’operato dell’Amministrazione finanziaria e una modifica della pretesa impositiva, come nel caso di specie, incontra il vizio dell’extra petita partium, ossia di una pronuncia al di là delle richieste delle parti, in quanto tale vietato dall’art. 112 c.p.c. La pronuncia in commento è di particolare interesse in quanto definisce i limiti del potere giurisdizionale: il giudice deve esprimersi nei limiti della domanda, senza poter esercitare un potere amministrativo sostanziale. Potere che compete invece alla sola Amministrazione Finanziaria. In caso contrario, si configurerebbe una lesione del diritto di difesa del contribuente, che soltanto in sede di giudizio verrebbe ad apprendere del nuovo fondamento impositivo. G.G.