Abstract La Cassazione, con l’ordinanza 2 febbraio 2022, n. 3144, ribadisce le regole del riparto dell’onere probatorio in materia di frodi Iva. Valorizzate le conclusioni del giudice di appello che vi si conformi: in caso di acquisti online il dato dell’assenza, in capo al fornitore, di magazzini o strutture adeguate all’esercizio dell’attività d’impresa può non essere conosciuto dal contribuente. La vicenda dedotta in giudizio Con l’interessante arresto in commento la Corte di cassazione ha ribadito i principi ormai consolidati in tema di riparto dell’onere probatorio in materia di frodi Iva, al contempo valorizzando elementi probatori emersi da una perizia di parte predisposta e depositata nell’ambito di un processo penale parallelo a quello tributario instaurato dinanzi alla competente Commissione Tributaria Provinciale. L’Agenzia delle Entrate aveva emesso un avviso di accertamento in materia di imposte dirette e Iva nei riguardi di una società esercente attività all’ingrosso di prodotti non alimentari. La verifica fondava sugli elementi desunti da un processo verbale in cui l’Ufficio, all’esito di un’attività ispettiva condotta nei confronti di un soggetto terzo, aveva ricostruito un meccanismo fraudolento intracomunitario volto all’evasione dell’Iva. La frode vedeva il coinvolgimento di una pluralità di soggetti commerciali, tra cui una società che avrebbe svolto il ruolo di missing trader interposto tra il cedente ed il destinatario effettivo delle merci. Detto soggetto aveva emesso nei confronti della contribuente alcune fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, con applicazione di prezzi ritenuti di molto inferiori a quelli di mercato. Le contestazioni mosse in sede di accertamento afferivano a circostanze penalmente rilevanti, pertanto veniva redatta denuncia per il reato di cui all’art. 2 del DLgs. 74/2000. La contribuente risultava vittoriosa in entrambi i gradi del giudizio di merito. In particolare il giudice di appello rilevava come, dall’esame degli elementi indiziari dedotti in giudizio, non fossero emersi dati idonei a dimostrare la connivenza della contribuente, né tantomeno la consapevolezza della stessa di realizzare operazioni soggettivamente inesistenti. Inoltre evidenziava come nel parallelo giudizio penale fosse stata accertata la mancanza della consapevolezza di partecipare a una frode, valorizzando altresì le conclusioni di una perizia giurata redatta in sede penale, a dimostrazione dell’allineamento (se non addirittura della superiorità) dei prezzi di vendita praticati rispetto a quelli di mercato. Non solo: a parere del giudice del gravame la contribuente avrebbe ben potuto non essere a conoscenza dell’assenza di strutture o magazzini in capo al fornitore identificato come presunto missing trader, atteso che le vendite avvenivano online. Da tale profilo, strettamente afferente alle modalità di effettuazione delle operazioni commerciali, discendeva il dovere di riconoscere alla contribuente l’esimente della buona fede. Il decisum della Suprema Corte I Giudici di legittimità hanno preliminarmente richiamato i principi generali in materia di distribuzione dell’onere probatorio tra le parti processuali. In forza del formato giurisprudenziale pluriennale e ormai consolidato hanno dunque evidenziato che, in presenza di contestazioni relative a fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, l’Amministrazione non può limitarsi a provare l’oggettiva fittizietà del fornitore, bensì è tenuta a dimostrare, anche per via presuntiva purché in base a elementi oggettivi e specifici, la consapevolezza del destinatario che l’operazione fosse inscritta in una cornice fraudolenta volta all’evasione d’imposta. Consapevolezza che si atteggia come conoscenza (è il noto adagio giurisprudenziale per cui il contribuente “sapeva o avrebbe dovuto sapere”) della sostanziale inesistenza del contraente, facendo uso dell’ordinaria diligenza imprenditoriale di settore. Assolto tale onere da parte erariale, a sua volta il contribuente è tenuto alla prova contraria di aver adoperato, nell’ambito delle operazioni contestate, la massima diligenza esigibile secondo canoni di ragionevolezza e proporzionalità relativamente alle circostanze del caso concreto. Fatte tali premesse, a fronte delle doglianze dell’Agenzia ricorrente la Corte ha ritenuto che nessun addebito sia attribuibile al giudice a quo, che anzi si è attenuto ai principi sopra esposti mediante l’esame e la valutazione degli elementi dedotti in giudizio. La sentenza di secondo grado, infatti, ha prestato particolare attenzione ai dirimenti profili di regolarità dei prezzi di vendita (desumibili dalla perizia giurata depositata nel parallelo procedimento penale) ed al fatto che il dato dell’assenza, in capo alla fornitrice, di magazzini o strutture adeguate all’esercizio dell’attività d’impresa potesse risultare elemento non conosciuto dalla contribuente, atteso che le vendite avvenivano esclusivamente online. Un aspetto a ben vedere interessante, che i giudici di secondo grado avevano ritenuto di assumere a dimostrazione della buona fede della società, in assenza di elementi convincenti in senso contrario addotti da parte erariale. In altre parole, il fatto che le vendite avvenissero esclusivamente per via telematica è stato ritenuto idoneo, unitamente agli altri elementi probatori sopra richiamati, a “scriminare” la società accertata in ordine alla conoscenza o conoscibilità del fatto che la fornitrice fosse invero del tutto carente di strutture adeguate all’esercizio dell’attività imprenditoriale. Naturalmente la Suprema Corte, per quanto di sua competenza, non è entrata nel merito delle modalità di acquisto delle merci, bensì si è limitata a rilevare come il giudice di appello abbia fatto corretta applicazione dei principi in tema di ripartizione dell’onere della prova, valorizzando elementi ritenuti sufficienti a corroborare la difesa della contribuente a fronte dell’impianto “accusatorio” dell’Ufficio (in senso analogo cfr. la recentissima Cass. 5059/2022, depositata il 16 febbraio scorso, secondo cui “in conformità al principio enunciato [in ordine al riparto dell’onus probandi], il giudice di appello ha accertato l’estraneità della contribuente ad ogni coinvolgimento nelle operazioni soggettivamente inesistenti, valutando l’irrilevanza presuntiva delle circostanze dedotte dall’amministrazione finanziaria in sede di accertamento, in particolare la mancanza di una sede operativa adeguata allo svolgimento dell’attività commerciale e la omissione della tenuta della contabilità. […] Difatti, le circostanze poste a base dell’accertamento della polizia tributaria (peraltro, non riprodotte in ricorso ai fini dell’autosufficienza) non sono idonee a presumere la conoscibilità per il contribuente della natura fittizia delle cessioni”). Non è privo di interesse, peraltro, il fatto che, fermo restando il rispetto del principio del doppio binario, il giudice a quo abbia inteso attribuire valenza risolutiva agli elementi probatori emersi dalla perizia di parte predisposta e depositata nel parallelo giudizio penale. Ciò a ulteriore riprova della portata decisiva, nella cornice del processo tributario, della perizia quale strumento sempre più utilizzato dal contribuente, esposto al rischio di una vera e propria probatio diabolica nei giudizi aventi ad oggetto presunte frodi carosello, onde predisporre un’adeguata difesa orientata a dimostrare la propria estraneità alla frode contestata. F.N.