Abstract Con la sentenza n. 471 del 12 gennaio 2022 (ud. 26.10.2021), la Corte di Cassazione penale è intervenuta sul tema della soglia di rilevanza penale dell’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti e sulla correlata questione relativa al regime della deducibilità di costi e spese effettivamente sostenuti ed inerenti al reato. *** Il caso La complessa vicenda giudiziaria analizzata riguarda il legale rappresentante di una società, originariamente tratto in giudizio dinnanzi al Tribunale di Bergamo per rispondere del reato di dichiarazione fraudolenta ex art. 2 DLgs 74/2000. Il giudice di primo grado aveva condannato l’imputato per il predetto delitto, mentre la Corte d’Appello di Brescia, all’esito del giudizio di secondo grado, aveva parzialmente riformato la sentenza riqualificando il fatto ai sensi dell’art. 3 del DLgs 74/2000. Avverso la sentenza d’appello, l’imputato aveva proposto ricorso per Cassazione, sulla base di un unico motivo che è stato ritenuto fondato dai giudici di legittimità. Nello specifico, nella sentenza n. 36620/2019, la Cassazione aveva ritenuto erronea la qualificazione data ai fatti oggetto di imputazione dai giudici bresciani, che non avrebbero tenuto conto delle modifiche subite dall’art. 3 DLgs 74/2000 con l’intervento del DLgs 158/2015. Secondo il ragionamento dei giudici, l’art. 3 Dlgs 74/2000 avrebbe trovato applicazione nel caso di specie nella versione antecedente alla riforma del 2015 in quanto più favorevole all’imputato. La versione antecedente alla riforma della norma prevedeva che l’indicazione in dichiarazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o di elementi passivi fittizi dovesse basarsi su una falsa rappresentazione delle scritture contabili obbligatorie. Ebbene, nel caso di specie la Corte territoriale aveva accertato l’assenza di prova di una falsa rappresentazione nelle scritture contabili, circostanza che impediva la configurazione dell’art. 3 Dlgs 74/2000 nella versione applicabile all’imputato. Nondimeno, ha osservato la Corte, i giudici di merito hanno accertato la fittizietà delle poste passive annotate nella dichiarazione presentata per un imponibile complessivo, in relazione all’anno 2010, pari ad € 1.118.994, con conseguente sottrazione di € 67.924 per l’IRES ed € 223.799 per l’IVA. Tale fatto integra, secondo la Cassazione, il delitto di dichiarazione infedele di cui all’art. 4 DLgs 74/2000. Tuttavia, per accertare la punibilità del reato di dichiarazione infedele, la Cassazione ha evidenziato la necessità di procedere all’accertamento del superamento delle soglie fissata dall’art. 4 DLgs 74/2000, come riformulate con la riforma del 2015, in senso più favorevole all’imputato. Al fine di svolgere tale accertamento, la Corte ha rinviato la sentenza ad altra sezione della Corte d’appello di Brescia. Con il provvedimento adottato in sede di rinvio, la Corte di appello di Brescia ha ritenuto che le soglie di punibilità fossero superate nel caso di specie, condannando così l’imputato in relazione al reato di cui all’art. 4 DLgs 74/2000. Avverso tale decisione, l’imputato ha nuovamente proposto ricorso per Cassazione lamentando questa volta il vizio di motivazione della sentenza emessa dalla Corte d’appello. Secondo la difesa, infatti, i giudici del rinvio avrebbero ritenuto superata la soglia prevista per l’ammontare dell’imposta diretta evasa non avendo computato i costi sostenuti dalla società, seppur relativi a operazioni soggettivamente inesistenti e, perciò, effettivamente sostenuti. La pronuncia Con la sentenza in commento, la Corte di legittimità ha ritenuto non manifestamente infondato il motivo relativo al difetto di motivazione in ordine al mancato scomputo dei costi sostenuti dall’ammontare totale delle imposte, cui riferire la valutazione circa il superamento delle soglie di rilevanza penale. In ragione della dichiarata ammissibilità del ricorso, la Cassazione ha dovuto dare rilievo al decorso del termine di prescrizione, annullando la sentenza per estinzione del reato di cui all’art. 4 DLgs 74/2000. Tuttavia, ciò che merita un approfondimento in questa sede è il ragionamento svolto dalla Corte nelle motivazioni della propria decisione. La Corte, infatti, ha ribadito l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo il quale, con riferimento all’IVA, l’inesistenza solamente soggettiva (e non anche oggettiva) dell’operazione è rilevante in quanto la qualità del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, quindi, sull’entità dell’imposta che l’acquirente può legittimamente detrarre. Il sistema dell’IVA, infatti, si fonda sul presupposto che tale imposta sia versata a chi ha effettivamente svolto una prestazione imponibile, non entrando nel conteggio del dare ed avere ai fini IVA le fatture emesse da chi non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni oggetto di fatturazione. Pertanto, esporre dati fittizi anche solo soggettivamente significa creare le premesse per un rimborso del quale non si ha diritto. Per le imposte dirette, invero, assumono rilievo esclusivamente le operazioni oggettivamente inesistenti. Di conseguenza, nel caso di specie, in cui le operazioni sono ritenute inesistenti sotto il solo profilo soggettivo, i costi effettivamente sostenuti dalla Società dovrebbero considerarsi rilevanti ai fini dell’accertamento del reato di cui all’art. 4 DLgs 74/2000. La Corte d’appello di Brescia, nel valutare il superamento della soglia del 10% degli elementi attivi indicati in dichiarazione (fissata dalla lettera b) dell’art. 4 c. 1 DLgs 74/2000), avrebbe invece considerato l’intero ammontare dei costi indicati in dichiarazione come fittizi, senza dare conto in motivazione dei rilievi probatori già emersi e posti a sostegno dei motivi di ricorso. Secondo i giudici di legittimità, dunque, alla luce dei principi sopra enunciati, la Corte d’appello avrebbe dovuto effettuare una specifica analisi delle singole voci di costo, scomputando quelle effettivamente sostenute dal calcolo della soglia di rilevanza penale. In sintesi, la Corte ha affermato che, in relazione all’evasione delle imposte sui redditi, ai fini della valutazione del superamento delle soglie di punibilità fissate dall’art. 4 DLgs 74/2000, occorre tener conto anche dei costi relativi ad operazioni solo soggettivamente inesistenti, in quanto effettivamente sostenuti dalla società. In tal modo la Cassazione ha aderito a quell’orientamento giurisprudenziale, condiviso in misura minoritaria in sede sia penale che tributaria, per cui l’utilizzo in dichiarazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti rileva solo ai fini dell’evasione dell’IVA e non anche dell’evasione delle imposte sui redditi, posto che gli elementi passivi indicati in dichiarazione, in tal caso, rappresentano un costo effettivamente sostenuto. Merita, tuttavia, sottolineare che l’orientamento prevalente espresso dalla Cassazione penale in materia tende al contrario ad aderire ad un approccio più rigoroso rispetto a alle statuizioni sopra richiamate e a quelle enunciate dalla giurisprudenza civile. Infatti, come ribadito recentemente dalla Cassazione con la sentenza n. 10916/2020, la consapevolezza del contribuente di partecipare ad un sistema fraudolento volto all’evasione fiscale comporta – secondo l’orientamento prevalente - l’indeducibilità dei costi e delle spese riconducibili a fatti qualificabili come reato. Pertanto, ai fini della determinazione del reddito tassabile, non sarebbero ammessi in deduzione costi e spese di beni o prestazioni usati per la commissione della condotta delittuosa, dal momento che la loro indeducibilità non deriverebbe esclusivamente dal loro impiego per finanziare delitti dolosi, ma anche dalla loro inerenza a più generali attività delittuose alle quali l’impresa non sia estranea e per il cui perseguimento abbia (realmente) sostenuto i costi (fittiziamente) fatturati. E.M.