La motivazione dell’avviso di liquidazione è requisito intrinseco dell’atto stesso e non è dunque ammessa la c.d. “motivazione postuma”

14 Febbraio 2022

Abstract

Con la sentenza n. 2039, depositata il 25 gennaio 2022, la Suprema Corte ha ribadito la necessità, ai fini della validità dell’avviso di liquidazione, del rispetto dell’obbligo di motivazione, in quanto funzionale a permettere al contribuente di esercitare correttamente il proprio diritto di difesa. L’atto impositivo non ha infatti natura di “provocatio ad opponendum” allo scopo di legittimare una “motivazione postuma” da parte dell’Ufficio.

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Il caso

La sentenza in commento pone nuovamente all’attenzione il tema, molto attuale, relativo all’obbligo di motivazione, posto a carico dell’Amministrazione Finanziaria, nel processo di formazione di un atto di accertamento.

È ormai frequente l’emissione di avvisi di liquidazione in materia di imposta di registro dai quali non è immediatamente desumibile né quale sia esattamente l’atto posto a registrazione, né quali siano i criteri di determinazione delle pretese impositive e sanzionatorie. Il caso posto al vaglio dei Giudici di legittimità è paradigmatico in tal senso.

Il giudizio trae origine dall’impugnazione di un avviso di liquidazione emesso dalla Agenzia delle Entrate, col quale veniva liquidata nei confronti della società contribuente l’imposta di registro, unitamente a sanzioni ed interessi, per la registrazione di un decreto ingiuntivo pronunciato dal Tribunale di Milano. All’interno di esso veniva riportata l’enunciazione di ulteriori atti[1].  

La Corte, in punto di narrativa, evidenzia come la motivazione dell’avviso si esaurisse esclusivamente nella «indicazione degli estremi del decreto ingiuntivo e della data dei tre anni enunciativi, nella indicazione cumulativa degli articoli di legge applicati (artt. 5 e 22 del d.P.R. 131/1986; 69 del d.P.R. 131/1986; 25 del d.P.R. 642/1972) e degli importi liquidati per ciascuna imposta, nell’indicazione degli importi liquidati complessivamente per le sanzioni e gli interessi, nella indicazione dell’importo dovuto per “entr. event. Dell’Agenzia” e nella indicazione della somma totale dovuta».

Al termine del giudizio di primo grado introdotto dinanzi alla CTP di Milano, il predetto avviso di liquidazione veniva dichiarato illegittimo e dunque annullato. Tuttavia, all’esito del giudizio di seconde cure dinanzi alla CTR della Lombardia, quest’ultima, accogliendo l’appello proposto dalla AF, dichiarava legittimo l’avviso di liquidazione.

La sentenza della corte territoriale di secondo grado, in particolare, riteneva l’avviso di liquidazione sufficientemente motivato e dunque rispettoso dei dettami dell’articolo 7 della legge 212/2000, aderendo alla tesi secondo cui “è sufficiente che l’avviso enunci il criterio astratto in base al quale è stata determinata l’imposta di registro”. Avverso la prefata sentenza, proponeva ricorso per cassazione la società contribuente.

La pronuncia

La Suprema Corte, aderendo alle censure mosse dalla società ricorrente con riguardo alla contestata violazione dell’articolo 7 della L. 212/2000 (c.d. Statuto del Contribuente), ha accolto il ricorso proposto.

I Supremi Giudici, dopo aver premesso come ai fini del soddisfacimento dell’obbligo di motivazione sia necessario che il contribuente venga messo nelle condizioni di conoscere la pretesa impositiva tanto nel suo “petitum” quanto nella “causa petendi”, tengono ad evidenziare come nel caso di specie la motivazione dell’atto di liquidazione fosse manchevole sia di puntuali riferimenti giuridici che di specifiche indicazioni riguardo alle somme dovute per ciascun titolo, non permettendo la comprensione delle ragioni della pretesa impositiva.

Gli stessi Giudici proseguono rammentando come in precedenti pronunce la Corte[2] si fosse discostata nettamente dall’indirizzo giurisprudenziale (fatto proprio dalla CTR) che conferiva all’avviso di accertamento la natura di “provocatio ad opponendum”. Tale orientamento voleva che la motivazione dell’atto potesse sostanziarsi nella sola enunciazione dei criteri astratti legittimanti l’atto, così da rinviare alla fase processuale la prova della correlazione tra l’enunciazione astratta e l’effettiva sussistenza dei fatti concreti fondanti l’accertamento.

Secondo la Corte, tuttavia, tale indirizzo non può essere condiviso per varie ragioni. Nello specifico:

  • l’art. 7 citato osta ad una motivazione astratta e avulsa dalla ricostruzione degli elementi concreti fondanti l’obbligazione tributaria;
  • la considerazione per cui, se si accettasse per assurdo tale tipologia di motivazione, ciò legittimerebbe un atto in cui non sarebbero comprensibili i termini della pretesa tributaria. Con l’effetto, secondo il Collegio, di considerare sufficiente “(…) una motivazione che non garantisce il pieno dispiegarsi delle facoltà difensive del contribuente, né una corretta dialettica processuale e, in ultimo, una motivazione che non assicura, nel rispetto dei principi costituzionali di legalità e buona amministrazione, un’azione amministrativa efficiente, trasparente e congrua alle finalità della legge”.

I Giudici ricordano, invece, come l’obbligo di motivazione debba essere soddisfatto già ab origine e dunque fin dal momento di formazione dell’atto medesimo, poiché è da considerarsi un “requisito intrinseco dell’atto”.

In forza di tali considerazioni la Corte ritiene di non accogliere l’eccezione dell’AF fondata sulla legittimità della c.d. “motivazione postuma” fornita con la produzione documentale, resa nel corso del giudizio di primo grado, con la quale sarebbero stati forniti i chiarimenti circa le modalità di determinazione della base imponibile, le aliquote applicate ed ogni ulteriore informazione necessaria, cosi “riempendo” di contenuto ex post la motivazione astratta originaria.

Secondo il Supremo Collegio ostano alla legittimità della c.d. “motivazione postuma” svariate disposizioni presenti nell’ordinamento tra cui:

  • l’art. 3 della L. 241/1990, in quanto “(…) facendo riferimento alle ragioni che “hanno determinato” la decisione dell’amministrazione, correla il dato temporale alla motivazione al momento dell’emanazione dell’atto;
  • l’art. 18 del DLgs. 546/92 che “(…) imponendo al contribuente di specificare nel ricorso introduttivo di primo grado, i motivi di impugnazione, presuppone che l’atto dia conto delle ragioni della pretesa (altrimenti il ricorso non potrebbe che essere, in tutto o in parte, al “buio”)”; e
  • gli artt. 23 e 32 del DLgs. 546/92 in quanto, presupponendo la facoltà dell’AF di produrre in giudizio gli elementi di prova richiamati nell’atto impositivo (e di dedurne di nuovi nei limiti di quanto consegua ai motivi di ricorso proposti dal contribuente), implicano necessariamente che tali elementi siano compiutamente indicati già nell’avviso.

Da ultimo, non appare meritevole di accoglimento l’ulteriore eccezione proposta dall’Ufficio secondo cui, in presenza di un atto tributario non motivato, dovrebbe comunque ritenersi applicabile la previsione di cui all’articolo 21-octies della L. 241/90[3]. Le ragioni sono chiare secondo il Collegio che precisa come: “solo attraverso la motivazione può emergere se il contenuto dispositivo dell’atto poteva essere diverso. Il vizio di motivazione non è un vizio strettamente formale bensì un vizio di “frontiera” tra i vizi formali ed i vizi sostanziali”. Per cui, in assenza di una motivazione, che non può qualificarsi come vizio di natura formale come generalmente inteso, l’atto di per sé è inesorabilmente inficiato da un vizio sicuramente non sanabile.

La sentenza commentata merita di essere apprezzata sia nelle conclusioni che nelle argomentazioni utilizzate in quanto ribadisce il concetto della centralità della motivazione in una prospettiva di rispetto dei principi di parità delle armi e di diritto di difesa del contribuente.

A.C.


[1] La S.C. specifica in sentenza che si trattava di un contratto preliminare, una scrittura privata di mutuo ed un riconoscimento di debito: atti evidentemente non precedentemente portati alla registrazione da parte della società contribuente.

[2] Si fa riferimento, in particolare, alla Sentenza Cass. 21 novembre 2018, n. 30039.

[3] La prefata disposizione, prevede, infatti, che “non è annullabile il provvedimento amministrativo emesso in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, qualora sia palese che il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

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