Abstract La Corte di cassazione con l’ordinanza n. 31588 del 4 novembre 2021 ha riaffermato il principio secondo cui la dichiarazione sostitutiva di atto notorio rilasciata dal terzo può essere prodotta dal contribuente in giudizio, onde evitare disparità irragionevoli tra parti processuali. Ciò non contrasta con il divieto di prova testimoniale sancito dall’art. 7 del DLgs 546/1992. Il caso Il caso deciso dalla Cassazione con l’ordinanza n. 31588, depositata il 4 novembre 2021, riguardava plurimi accertamenti, per diversi tributi e annualità d’imposta, con i quali l’Agenzia delle Entrate aveva contestato alla Società contribuente l’omessa contabilizzazione e fatturazione di ricavi, l’indebita deduzione di costi per oneri fittizi di personale, l’omessa regolarizzazione di fatture passive, l’indebita deduzione di costi non inerenti, e l’irregolare tenuta di scritture contabili. La Commissione Tributaria Regionale riformava parzialmente la sentenza del giudice di primo grado, totalmente favorevole all’Ufficio, e – ritenendo attendibili le numerose e concordanti dichiarazioni sostitutive di notorietà prodotte dalla contribuente – annullava le riprese a titolo di omessa contabilizzazione di ricavi, maggiori ricavi accertati per movimentazioni in entrata non giustificate e maggiori ricavi concernenti entrate relative a convenzioni stipulate con società sportive. L’Agenzia delle Entrate proponeva, dunque, ricorso per cassazione, lamentando, per quanto qui di interesse, la violazione e falsa applicazione dell’art. 7, c. 4, Dlgs 546/1992, e degli artt. 2697, 2700 e 2729 c.c. per aver il giudice d’appello ritenuto ammissibili, valide e determinanti le dichiarazioni provenienti da terzi sostitutive dell’atto di notorietà prodotte dalla contribuente a confutazione dei prospetti di contabilità parallela rinvenuti in sede di accertamento. La Corte di cassazione ha ritenuto fondato il motivo di ricorso così proposto e rinviato al giudice del merito per una più approfondita disamina – sotto il profilo della “gravità” e “precisione”, oltreché della già riconosciuta “concordanza” – degli indizi desunti dalle dichiarazioni di terzo prodotte in giudizio dalla Società contribuente. La pronuncia La parte della decisione concernente il tema dell’efficacia probatoria dei documenti contenenti le dichiarazioni di terzo introdotte ritualmente nel giudizio tributario è interessante, in quanto sintetizza lo “stato dell’arte” rispetto a tale materia. Con molta chiarezza la Corte ribadisce l’orientamento, consolidato, in forza del quale nel giudizio tributario l’attribuzione di piena efficacia probatoria alla dichiarazione di terzo sostitutiva di atto notorio trova un ostacolo insormontabile nel divieto di prova testimoniale sancito dall’art. 7, c. 4, Dlgs 546/1992, come interpretato dalle sentenze della C. cost. nn. 18/2000 e 395/2007. Con un secondo passaggio argomentativo la Cassazione ricorda che le dichiarazioni di terzo costituiscono elementi indiziari ammissibili e utilizzabili nel rapporto processuale tributario, tanto dall’Amministrazione quanto dal contribuente, nel rispetto dell’art. 6 CEDU, rubricato “Diritto a un equo processo”, con riferimento alle sanzioni, e in genere del principio di parità delle armi di cui all’art. 47 Carta dir. fond. UE, rubricato “Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”, espressione del principio di uguaglianza ai fini dell’art. 3 Cost. È noto il carattere non autosufficiente di tali mezzi di prova, i quali anche se “possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione” (C. cost. 18/2000, supra richiamata). Ebbene, affinché l’elemento indiziario possa legittimamente concorrere a formare il convincimento del giudice, ovvero parafrasando la Suprema Corte “divenga piena prova assurgendo a presunzione semplice”, occorre che si qualifichi sotto il profilo della “gravità”, intesa come continuità logica tra fatto noto e fatto ignoto, di “precisione”, nel senso storico riferito ai fatti noti, e, in caso di pluralità di fonti, della “concordanza”. La “precisione” dell’indizio, fatto storico noto, dev’essere desunta dalla sua contestualizzazione anche con riferimento agli ulteriori elementi di prova raccolti nel processo. La sua “gravità” è riconnessa alla probabilità della sussistenza del fatto ignoto che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere da quello noto. L’operato del giudice di appello è stato ritenuto dalla Suprema Corte censurabile per un duplice ordine di motivi: in primo luogo, per aver attribuito alle predette dichiarazioni valore di prova testimoniale, come avviene nel processo civile, in contrasto con l’art. 7, c. 4., Dlgs 546/1992, che espressamente lo esclude; in secondo luogo perché, a giudizio della Corte, non avrebbe approfondito criticamente l’attendibilità e la coerenza intrinseca delle dichiarazioni di terzo prodotte dalla Società contribuente, tramite adeguata contestualizzazione all’interno del materiale istruttorio raccolto, valorizzando unicamente il loro numero, dieci, e la loro concordanza. Per la Suprema Corte non è sufficiente, infatti, che siano state raccolte nel processo tributario ben dieci dichiarazioni di terzo di contenuto convergente (profilo della “concordanza”), perché il giudice di appello avrebbe dovuto condurre una valutazione anche in ordine alla “gravità” e alla “precisione” dell’indizio contenuto nelle dichiarazioni di terzi, vagliando ad esempio “l’attendibilità dei dichiaranti, la credibilità delle dichiarazioni rese, lo iato cronologico tra fatto storico e momento delle dichiarazioni, l’interesse del singolo dichiarante favorevole, contrario o neutro al contenuto della dichiarazione”. Di conseguenza è stato accolto il ricorso erariale, con rinvio al giudice del merito per una nuova valutazione del materiale probatorio alla luce dei criteri indicati. l divieto di prova testimoniale è una delle criticità, in punto di rito, del processo tributario oggetto di dibattito fin dalla sua introduzione e, più recentemente, di proposta di modifica da parte della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria. La sua esclusione nel giudizio tributario ha ragioni storiche che si fondano, secondo autorevole dottrina, “nella tradizionale diffidenza verso la credibilità ed attendibilità dei cittadini, concepiti come portati naturalmente ad essere sodali tra loro contro lo Stato tassatore” (A. Carinci, Riflessioni a caldo sulla riforma della giustizia tributaria, in vista del suo (auspicato) avvio, in “il fisco” n. 13/2021). La Commissione interministeriale, nella relazione finale del 30 giugno 2021, ha evidenziato come tale motivazione appaia oramai del tutto obsoleta, e che sia invece un’esigenza ben più attuale quella, avvertita in dottrina e segnalata anche dalla giurisprudenza della Cassazione, di garantire il pieno esercizio del diritto di difesa nell’ambito del processo tributario, realizzando le condizioni affinché vi sia un’effettiva parità tra le parti processuali, in coerenza con il principio del giusto processo. Partendo dal presupposto che l’Amministrazione finanziaria può assumere in sede extraprocessuale dichiarazioni di terzi – direttamente e, molto spesso, indirettamente (acquisendo autoritativamente nel corso dell’attività di controllo dichiarazioni di natura testimoniale aliunde assunte) – che hanno valore probatorio indiziario, e qualora ricorrano le condizioni richieste danno luogo a presunzioni, la proposta contenuta nella citata relazione è quella di introdurre una prova testimoniale scritta, su autorizzazione del giudice, sul modello dell’art. 257 bis c.p.c., così riformulando il quarto comma dell’art. 7 Dlgs 546/1992: 4. Non è ammesso il giuramento. Su istanza del ricorrente il giudice può autorizzare la prova testimoniale assunta in forma scritta ai sensi del codice di procedura civile su circostanze oggetto di dichiarazioni di terzi contenute in atti istruttori. Una simile soluzione avrebbe l’indubbio pregio di non relegare la dichiarazione del terzo a mero indizio, ed al contempo di non introdurre nel corso del processo una fase istruttoria eccessivamente dilatoria, tale da minare la tanto decantata celerità del giudizio tributario. S.L.