Abstract Con l’Ordinanza n. 25684 depositata il 22 settembre 2021 la Sez. VI della Suprema Corte si è pronunciata sulla fondatezza di un avviso di accertamento emesso a fronte di un illegittimo prelievo da parte di un coniuge operato su un conto cointestato con l’altro coniuge, prelievo qualificato quale fonte di proventi illeciti. Al riguardo, la Cassazione ha stabilito che è legittima la tassazione anche se il coniuge che ha operato il prelievo è stato condannato alla restituzione delle somme indebitamente prelevate. Il caso La Direzione Provinciale di Prato ha emesso nei confronti del contribuente un avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2010 ai fini delle imposte sui redditi. La maggiore imposta è stata richiesta sul presupposto che la somma di cui il contribuente si era indebitamente appropriato in danno del coniuge, mediante un prelevamento dal conto corrente cointestato alimentato in via esclusiva da quest’ultimo, costituisse provento illecito assoggettabile a tassazione. Nella specie, il contribuente è stato condannato dal giudice civile alla restituzione delle somme in favore del coniuge per l’arbitraria appropriazione nonché al risarcimento dei danni subiti, potendosi considerare il prelevamento – secondo la prospettazione dell’Ente impositore - un provento derivante da fatto illecito. Il contribuente ha impugnato l’atto impositivo rilevando come il versamento effettuato dalla moglie nel conto corrente cointestato debba configurarsi, almeno per la metà del suo valore, quale liberalità indiretta per cui non poteva ritenersi sussistente nel caso di specie un provento illecito. Tale qualifica, inoltre, era esclusa anche in ragione della condanna emessa dal giudice civile alla restituzione delle somme. La CTP di Prato, con sentenza n. 208/01/2016 depositata il 2 dicembre 2016, ha accolto le doglianze del contribuente annullando l’atto impugnato. La decisione resa dal giudice di prime cure è stata successivamente riformata dalla CTR della Toscana che con sentenza del 4 aprile 2019 n. 596/05/2019 ha accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate. Secondo la CTR la somma di cui il contribuente si era indebitamente appropriato in danno del coniuge costituiva provento illecito assoggettabile a tassazione per cui l’atto impositivo doveva considerarsi legittimo. Avverso la predetta sentenza la parte soccombente ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. Con il primo motivo è stata censurata la sentenza di appello per violazione di legge, avendo erroneamente ritenuto il giudice di appello che la somma versata dal coniuge sul conto corrente cointestato al contribuente non potesse far presumere la donazione indiretta della metà a suo favore. Con il secondo motivo di ricorso, la sentenza è stata impugnata per violazione degli artt. 32 e 58 del D. Lgs 546/1993 e 153 c.p.c., per essere stato erroneamente ritenuto dal giudice di appello che l’amministrazione finanziaria potesse produrre ulteriore documentazione nel giudizio di secondo grado. La pronuncia La Cassazione, con l’ordinanza in commento, si è pronunciata inizialmente sul secondo motivo di ricorso, in ragione del suo carattere pregiudiziale. Al riguardo, il Giudice di legittimità ha ritenuto infondato il motivo rilevando come nel processo tributario, ai sensi dell’art. 58 del D Lgs 546/1992, le parti hanno facoltà di produrre nuovi documenti entro il termine di cui all’art. 32 del medesimo decreto, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza. Ciò sottolineando che si tratta di termine avente natura perentoria. Di conseguenza, un eventuale deposito tardivo di documenti nel corso del primo grado di giudizio non impedirebbe la rituale acquisizione nel giudizio di secondo grado, posto che nello stesso giudizio di impugnazione le parti hanno la facoltà di produrre nuovi documenti ai sensi dell’art. 58 cit. Con riferimento al primo motivo di ricorso, secondo la Cassazione “i proventi rientranti da fatti illeciti, rientranti nelle categorie reddituali di cui all’art.6 , comma 1 del DPR 22 dicembre 1986 n. 917, devono essere assoggettati a tassazione anche se il contribuente è stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati o se in capo all’autore del reato sussisteva l’intenzione di non trattenere le ricchezze percepite nel proprio patrimonio ma di riversarle a terzi (Cfr. Cass. 5 giugno 2000 n. 7511 e Cass. 24 ottobre 2019 n. 27357). Del resto, precisa la Suprema Corte, il versamento di somme presso un conto cointestato non costituisce, di per sé, atto di liberalità non essendo verificata – con tale operazione – l’esistenza di un animus donandi, indispensabile perché possa qualificarsi una liberalità indiretta. Ciò impedisce si ritenere che il mero versamento da parte del coniuge di denaro personale sul conto corrente cointestato al contribuente sia idoneo a fondare una presunzione di appartenenza pro quota a quest’ultimo. La decisione in commento non appare pienamente condivisibile alla luce della mancanza nel caso di specie di ricchezza effettivamente conseguita dal contribuente. La fattispecie in esame, giova ribadirlo, riguarda il caso di un contribuente che, dopo aver indebitamente prelevato somme da un conto cointestato, è stato condannato alla restituzione e quindi al conseguente risarcimento del danno. Sotto questo profilo, lo stesso non avrebbe accumulato nessuna ricchezza sul piano patrimoniale, potendosi diversamente ritenere che il suo stesso patrimonio sia diminuito in ragione della condanna al risarcimento dei danni cagionati. In questo contesto, l’azione accertatrice posta in essere dall’Ufficio – seppure fondata dalla originaria percezione di proventi illeciti – non appare corretta stante l’avvenuta restituzione delle stesse somme prelevate, circostanza questa che da sola esclude un arricchimento in favore del contribuente e quindi l’esistenza di una capacità contributiva da assoggettare alle imposte sui redditi. In altri termini, il caso di specie appare contrassegnato dall’applicazione dell’imposta su redditi effettivamente non conseguiti. Né può ritenersi infine che l’IRPEF possa utilizzarsi in chiave “punitiva”, non potendo assolvere tale imposta una funzione assegnata dall’ordinamento in via esclusiva alle sanzioni. F.D.D.D.