Abstract Pochi indizi privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza non sono sufficienti a fondare la presunzione di conoscenza o conoscibilità della frode finalizzata all’evasione dell’IVA. La generalizzazione di un metodo di verifica orientato in senso contrario, peraltro, potrebbe scoraggiare gli imprenditori e indurli a non assumersi il rischio d’impresa, con grave nocumento delle dinamiche economiche. Il caso Un quadro indiziario “povero”, connotato da scarsi indizi privi dei necessari requisiti di gravità, precisione e concordanza, non è sufficiente a corroborare la presunzione di conoscenza o conoscibilità della frode IVA da parte del contribuente. La generalizzazione di un metodo di verifica orientato in senso contrario, peraltro, potrebbe scoraggiare gli imprenditori e indurli a non assumersi il rischio d’impresa, con grave nocumento delle dinamiche economiche. È l’interessante ragionamento elaborato dalla Corte di cassazione nell’ordinanza in commento (Cass. 27745/2021), relativa a un caso di contestazione di operazioni soggettivamente inesistenti intercorse – secondo la ricostruzione dell’Ufficio – tra due srl. Impugnato l’atto impositivo emesso dall’Agenzia delle Entrate per il periodo d’imposta 2013, la società contribuente risultava vittoriosa in entrambi i gradi di giudizio. Come si desume dalla pronuncia di secondo grado (CTR NA sez. XIV 4245/2019), “l’Agenzia delle Entrate non ha negato l’esistenza effettiva della prestazione e quindi la fornitura delle merci, bensì la circostanza che le operazioni non fossero riconducibili al soggetto che aveva emesso le fatture”. Secondo i giudici di appello, in dettaglio, l’Agenzia delle Entrate aveva posto a fondamento della propria contestazione indizi invero “scarsamente significativi”, ritenendo erroneamente di ravvisare in capo alla contribuente profili di consapevolezza di partecipare a una frode in quanto, a seguito di una serie di indagini dalla medesima commissionate ad una società terza, era emersa l’assenza di provviste finanziarie in capo al proprio fornitore. Ciò avrebbe dovuto indurre la contribuente a sospettare l’esistenza della frode e a desistere dall’intrattenere rapporti commerciali con il fornitore. Inoltre, la medesima contribuente aveva stipulato un’assicurazione a copertura del rischio di mancata consegna delle merci acquistate: un dato, a parere dell’Ufficio, idoneo a corroborare la tesi della consapevolezza della frode e del rischio di insolvenza del fornitore. Secondo la CTR, tuttavia, gli elementi indiziari ora considerati possono fornire la prova circa la conoscenza dello stato di difficoltà del fornitore in un determinato momento storico, ma non palesano un grado di intensità tale da comprovare che la contribuente “sapeva o avrebbe dovuto sapere”. Da tutto ciò è deducibile che la prova dell’esistenza di dolo o colpa, anche fornita per via presuntiva, non è suscettibile di essere sostituita dall’assunzione di una responsabilità oggettiva fondata sulla mera relazione tra i soggetti commerciali. La pronuncia L’Amministrazione ha proposto ricorso per cassazione lamentando il mal governo, da parte della CTR, dei principi in tema di riparto dell’onus probandi in materia di operazioni soggettivamente inesistenti. Il Supremo Collegio ha però dichiarato l’infondatezza delle doglianze dell’Ufficio, ribadendo preliminarmente le regole del riparto dell’onere probatorio, secondo cui parte erariale ha l’onere di provare, anche in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anchela consapevolezza o conoscibilità, da parte del cessionario, del fatto che le operazioni si inserivano in una cornice fraudolenta volta all’evasione d’imposta. Il contribuente, di converso, è tenuto a fornire prova della corrispondenza dell’operazione documentata in fattura con quella effettivamente concretizzata, nonché dell’incolpevole affidamento in ordine alla regolarità fiscale dell’operazione, ingenerato dalla condotta del cedente, tenuti in debito conto tanto le modalità di svolgimento in concreto dei rapporti commerciali (anche alla luce della diligenza media dell’imprenditore di settore) quanto gli elementi acquisiti o disponibili nel corso delle trattative e al momento della conclusione dell’operazione. La prova può essere fornita anche per presunzioni, purché connotate dai noti requisiti di gravità, precisione e concordanza. E in tale cornice opera il principio, ormai consolidato, per cui “se è devoluta al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, violando i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi” (Cass. 1715/2007; id. 10973/2017; id. 19352/2018). Ma, secondo i giudici di legittimità, la CTR si è pedissequamente attenuta ai principi in materia di riparto dell’onere probatorio ed all’onere di valutazione in concreto degli elementi addotti nel giudizio, dimostrando l’insussistenza di elementi oggettivi specifici, idonei a far presumere che la contribuente fosse a conoscenza dell’esistenza di una frode. Al contrario, risultava esser stata esibita una serie di elementi “significativi”, suscettibili di deporre nel senso della mancata partecipazione all’accordo decettivo: la longevità e l’effettivo svolgimento di un’attività commerciale da parte della società fornitrice, l’avvenuta consegna della merce, il pagamento del prezzo, l’esistenza di numerose transazioni commerciali con altri fornitori (a riprova della non esclusività del rapporto con il fornitore contestato), nonché un modesto scarto percentuale tra i prezzi per gli acquisti effettuati presso quest’ultimo e le altre controparti commerciali. Ne consegue che la presenza di “pochi indizi, non gravi, non precisi e non concordanti” non integra, ex se, la presunzione semplice di conoscenza o conoscibilità della frode. Viceversa, come evidenziato dai Supremi giudici con una riflessione volta a riportare entro i confini del buon senso giuridico le verifiche condotte dall’Amministrazione, ove un quadro indiziario particolarmente disadorno fosse ritenuto sufficiente a fondare la presunzione in oggetto “gli imprenditori sarebbero eccessivamente timorosi e potrebbero essere indotti a non rischiare, decidendo di non concludere molti affari, con grave nocumento per i traffici commerciali e quindi per l’economia in generale. In effetti principi cardine del nostro ordinamento giuridico, come il possesso di buona fede vale titolo e la legge di circolazione dei titoli di credito sono volti a favorire gli scambi senza che l’acquirente debba approfondire in maniera troppo approfondita [sic] la provenienza di quello che acquista”. È un ragionamento che ripropone, a ben vedere, il tema dei limiti entro cui dev’essere ragionevolmente circoscritta l’attività di accertamento svolta dall’Amministrazione finanziaria, onde evitare che la difesa del contribuente assuma contorni problematici, tali da qualificarla come una vera e propria probatio diabolica. Il principio per cui il contribuente accertato è tenuto a dimostrare la mancanza di conoscenza (o, in ogni caso, la non conoscibilità) del fatto che una determinata operazione commerciale si inserisse in un meccanismo fraudolento, infatti, non può essere rimodellato al fine di giustificare verifiche connotate, come spesso accade, da assunzioni aprioristiche, affermazioni apodittiche e un impianto indiziario scarno e privo dei requisiti di legge. F.N.