Abstract La Corte di cassazione torna sulla vexata quaestio del contraddittorio, ma non arretra di un passo dalle sue posizioni monolitiche. La conferma di un orientamento anacronistico in opposizione alle più recenti istanze garantiste recepite, inter alia, dalla Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria. *** Il caso Con l’ordinanza in commento la Corte di cassazione ha perso un’altra occasione di riflessione per dare avvio a un’evoluzione del proprio orientamento in tema di contraddittorio endoprocedimentale, di pari passo con le istanze e le suggestioni dottrinali e giurisprudenziali più accorte e garantiste. Al fine di meglio perimetrare il presente contributo si fornirà un succinto inquadramento dei fatti di causa. Nel caso oggetto di disamina l’Agenzia delle Entrate avanzava, a mezzo avviso di accertamento, una pretesa relativa a Irpef, Irap e Iva per il periodo d’imposta 2009. Il provvedimento fondava su una prodromica attività di indagine finanziaria avente ad oggetto i rapporti intrattenuti dal contribuente con alcuni istituti di credito. Il soggetto verificato, a fronte della richiesta di fornire una giustificazione a versamenti e prelievi effettuati, presentava memorie che l’Ufficio riteneva, evidentemente, prive di consistenza, con la conseguenza dell’emanazione del provvedimento impositivo. Il giudice di prime cure accoglieva il ricorso del contribuente avverso l’avviso, rilevando la mancata redazione di idoneo processo verbale di chiusura delle operazioni e la mancata concessione del termine di sessanta giorni per la comunicazione di osservazioni di cui all’art. 12, c. 7, L. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente), nelle cui more – come noto – è generalmente preclusa l’emissione dell’avviso di accertamento. Adita la competente Commissione Tributaria Regionale dell’Emilia Romagna, parte erariale vedeva respingere il proprio appello. Confermando la pronuncia resa in primo grado, infatti, il collegio riteneva che il termine sopra richiamato dovesse essere concesso sempre e comunque, “qualunque sia l’attività di controllo posta in essere dall’Ufficio”. L’Agenzia delle Entrate, pertanto, impugnava la pronuncia di secondo grado affidando il ricorso per cassazione a unico motivo di impugnazione, lamentando in relazione all'art. 360, c. 1, n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione del citato art. 12, c. 7, L. 212/2000. Secondo l’Agenzia, infatti, a un’attività di verifica svoltasi esclusivamente secondo le modalità proprie di un accertamento a tavolino non consegue la necessaria redazione e consegna di un processo verbale di constatazione. La soluzione: no al contraddittorio “generalizzato” Con l’ordinanza n. 26094 depositata il 27 settembre 2021, come anticipato, la Suprema Corte ha ribaltato il dictum delle corti di merito, ribadendo il restrittivo orientamento “tradizionale” in materia di limiti al contraddittorio endoprocedimentale in caso di accertamenti c.d. a tavolino. In primo luogo i giudici di legittimità hanno messo in luce un profilo da cui discenderebbe la non necessarietà che una verifica fiscale si concluda, in ogni caso, con un processo verbale di constatazione. L’operatività delle garanzie procedimentali previste dallo Statuto dei diritti del contribuente, infatti, sarebbe da escludere recisamente in caso di accertamenti a tavolino, salvo che gli stessi abbiano ad oggetto tributi armonizzati (come l’Iva) e fermo restando, in tale ultimo caso, che il contribuente è comunque tenuto a fornire la c.d. prova di resistenza, indicando in concreto le questioni che avrebbe potuto dedurre in sede di contraddittorio preventivo, astrattamente idonee a incidere sul convincimento dell’Ufficio procedente. Da tutto ciò consegue che, in caso di accertamento a tavolino, non sussisterebbe alcun obbligo di emissione di un processo verbale di chiusura delle operazioni contemplante specifici rilievi e contestazioni. Secondo la Corte, inoltre, “nelle ipotesi di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, opera una valutazione “ex ante” in merito alla necessità del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, sanzionando con la nullità l’atto impositivo emesso “ante tempus”, sia per i tributi non armonizzati che per i tributi “armonizzati”, senza che, pertanto, ai fini della relativa declaratoria debba essere effettuata la prova di “resistenza”, invece necessaria, per i soli tributi “armonizzati”, ove la normativa interna – come in Italia – non preveda l’obbligo del contraddittorio con il contribuente nella fase amministrativa (ad es., nel caso di accertamenti cd. a tavolino), ipotesi nelle quali il giudice tributario è tenuto ad effettuare una concreta valutazione “ex post” sul rispetto del contraddittorio”. Contraddittorio – continua l’ordinanza – che, “pur costituendo un diritto fondamentale del contribuente e principio fondamentale dell’ordinamento europeo, in quanto espressione del diritto di difesa”, tuttavia “può soggiacere a restrizioni che rispondano, con criterio di effettività e proporzionalità, a obiettivi di interesse generale, sicché, nell’ambito tributario, non investe l’attività di indagine e di acquisizione di elementi probatori, anche testimoniali, svolta dall’Amministrazione fiscale”. È l’orientamento pressoché consolidato della Cassazione, cristallizzato nella celebre sentenza n. 24823/2015, con cui le Sezioni Unite hanno escluso la sussistenza di un obbligo generalizzato di contraddittorio endoprocedimentale. Orientamento criticato e rintuzzato solo da alcune Corti di merito che si pongono in chiave “avanguardistica”, particolarmente garantista e attenta ai diritti del contribuente a prescindere dalla tipologia di accertamento condotto e del tributo oggetto dello stesso. Nel caso di specie la CTR aveva palesemente disatteso pressoché tutti i cardini concettuali su cui si impernia la prospettiva della Suprema Corte, ritenendo di non operare alcuna distinzione tra tipologie di accertamento e di tributi oggetto di verifica, ed altresì eludendo l’onere di illustrare il pregiudizio concreto in cui si sarebbe esplicata la compromissione del diritto di difesa del contribuente a seguito della mancata attivazione di un contraddittorio pieno ed effettivo. La proposta della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria Stante la tradizionale impostazione della Suprema Corte, dunque, non si può certo manifestare sorpresa a fronte di una decisione come quella in commento. A lasciare interdetti, tuttavia, è una certa ostinazione non solo nel mantenere posizioni di netta chiusura, ma anche nel non voler fare un ponderato tentativo di messa in discussione delle stesse in un’ottica evolutiva, nonostante la citata prospettiva garantista trovi sempre maggiori consensi e spazi di espressione non solo nella più accorta giurisprudenza di merito, ma anche in proposte di riordino ed implementazione del sistema come quella recentemente elaborata dalla Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria. Prodotto dell’attività svolta dalla Commissione è la Relazione finale del 30 giugno 2021, espressione non banale del tentativo di recepire istanze di riforma di lungo corso ed articolate su più livelli. Preliminarmente la Commissione evidenzia che, sul versante del contraddittorio, “l’amministrazione ha, deve avere, un certo margine di flessibilità”. Richiama le incongruenze dell’ordinamento in materia, rilevando come fin dal 1990, con la legge n. 241 sul procedimento amministrativo, il legislatore abbia inteso ammettere “l’intervento del privato in termini generali, a fini di difesa o di partecipazione”, tuttavia prevedendo per talune categorie di procedimenti, come quello tributario, la prevalenza delle “particolari norme che li regolano” (art. 13, c. 2) e la conseguente non applicabilità del Capo III del citato provvedimento. La posizione, per certi versi ambigua, del legislatore e della giurisprudenza sul punto non è sfuggita alla Commissione, che ha inteso stigmatizzarla come “contraria alla lettera e allo spirito della legge sul procedimento, volta a rafforzare le garanzie per i cittadini”. Inoltre, si insiste, “proprio perché incide negativamente su quelle garanzie, dà luogo a controversie, anziché prevenirle” (Relazione finale, p. 13). Per tali ragioni la Commissione ha inteso elaborare due proposte, secondo un ordine di priorità logica e di principio, recepite nell’Allegato XII alla Relazione. Preliminarmente viene evidenziato come il diritto del contribuente al contraddittorio endoprocedimentale costituisca espressione, fra gli altri, del principio di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa sancito dall’art. 97 Cost. L’efficacia deflativa rispetto al contenzioso, infatti, è assicurata proprio da un contraddittorio pieno ed effettivo, al contempo garanzia per il contribuente e strumento idoneo a consentire all’Amministrazione di venire a conoscenza di elementi utili a corroborare l’esercizio del potere impositivo. Viene dunque individuata nell’art. 12 dello Statuto la disposizione maggiormente idonea a riconoscere un diritto al contraddittorio nella parte in cui prevede la facoltà, per il contribuente, di presentare, nel termine di 60 giorni dal rilascio del processo verbale di verifica, “osservazioni e richieste che sono valutate dagli uffici impositori”, pena la nullità del provvedimento impositivo eventualmente emesso senza il rispetto di tale iter procedimentale. Fatta tale premessa di ordine sistemico, la Commissione ha dunque formulato una duplice proposta, chiaramente connotata da alternatività, purtuttavia senza nascondere la volontà di conferire alla prima soluzione una maggior dignità giuridica, in quanto dotata di carattere generale. La prima proposta, infatti, prevede l’inserimento nello Statuto dei diritti del contribuente, ratione materiae, di un art. 6-bis espressamente rubricato “Diritto del contribuente al contraddittorio”. La disposizione ha un taglio volutamente generale e di principio, prevedendo ai primi due commi – senza operare distinzioni fra tributi o tipologie di verifiche – un diritto di partecipazione al procedimento amministrativo volto all’emissione di un provvedimento impositivo o finalizzato alla riscossione, pena la nullità dell’atto emesso in violazione di tale disciplina. Il ricorso all’espressione “diritto di partecipare al procedimento amministrativo” non sembra casuale. La partecipazione del contribuente a un iter procedimentale potenzialmente lesivo dei suoi diritti ed interessi è, infatti, espressione del diritto ad una buona amministrazione disciplinato dall’art. 41 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (significativamente inquadrato sotto il Titolo V, rubricato “Cittadinanza”), che al secondo comma sancisce “il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio”. Ma costituisce altresì un principio generale dell’ordinamento europeo, in forza dell’elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia (cfr., inter alia, sent. 18 dicembre 2008, Sopropè, C-349/07). Alla luce dei predetti principi appare dirompente la portata di una proposta finalizzata all’introduzione di un generale diritto al contraddittorio endoprocedimentale nell’ordinamento nazionale, e segnatamente nel provvedimento cardine per la tutela dei diritti dei contribuenti. La seconda indicazione della Relazione finale prevede la modificazione dell’art. 5-ter del DLgs 218/1997, di recente introduzione, nel senso dell’esclusione esplicita dal perimetro applicativo del primo comma (che prevede la notifica obbligatoria al contribuente dell’invito a comparire per l’avvio del procedimento di definizione dell’accertamento) dei soli avvisi di accertamento parziale “fondati esclusivamente su dati in possesso dell’anagrafe tributaria”. Non è privo di interesse evidenziare come la predetta soluzione sia stata espressamente qualificata dalla Commissione come “proposta subordinata” rispetto alla codificazione di un generale diritto al contraddittorio, percepito come presidio completo del diritto alla partecipazione del contribuente al procedimento amministrativo, declinato anche (non solo) come espressione del diritto di difesa. È chiaro che la proposta formulata dalla Commissione interministeriale è primariamente diretta a stimolare un intervento legislativo quantomai auspicabile allo scopo di mettere la parola fine alla querelle sul contraddittorio, manifestando una scelta di campo inequivocabile dello Stato. Tuttavia appare innegabile che la giurisprudenza (in primo luogo di legittimità) ha a disposizione tutti gli strumenti per avviare sin da ora un fecondo percorso di revisione critica di posizioni che, in ultima analisi, non giovano al contribuente e altresì ostacolano l’esercizio legittimo e fondato del potere impositivo. F.N