Abstract Con l’ordinanza depositata in data 13 settembre 2021, n. 24647, la Corte di cassazione ha ritenuto illegittimo l’atto di liquidazione dell’Imposta di Registro con cui l’Ufficio ha operato ai sensi dell’art. 20 TUR la riqualificazione, in cessione di ramo d’azienda, di un’operazione complessa comprendente la costituzione di una società, l’aumento del capitale sociale mediante conferimento di un ramo d’azienda e la successiva cessione delle quote di quest’ultima. *** Il caso La vicenda trae origine dalla notifica di un atto di liquidazione con cui l’Agenzia delle Entrate ha contestato l’insufficiente versamento dell’imposta di registro in relazione ad un’operazione qualificata dall’Ufficio come cessione di ramo d’azienda. Invero, l’operazione contestata alla società contribuente è stata così articolata: dapprima, è stata costituita una società a responsabilità limitata partecipata integralmente dalla contribuente; successivamente, quest’ultima ha conferito nella s.r.l. un proprio ramo d’azienda; infine, la contribuente ha ceduto ad un terzo la partecipazione totalitaria della s.r.l. In ciascun passaggio dell’operazione la società aveva proceduto a registrazione dei relativi atti, assolvendo di volta in volta l’imposta di registro nella misura fissa di euro 200,00. Con l’atto di liquidazione l’Agenzia delle Entrate ha invece contestato che gli atti negoziali predetti fossero stati posti in essere al solo scopo di trasferire il ramo d’azienda. Per operare tale riqualificazione, l’Ufficio ha invocato l’art. 20 DPR 131/1986 (TUR) richiamando la possibilità concessa dalla norma di ricondurre ad unità una pluralità di atti negoziali per tassarne l’effetto finale, tenendo conto del collegamento funzionale instaurato dalle parti tra più negozi giuridici. Dopo due gradi di giudizio non favorevoli, la società ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza emessa dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia; facendo valere due motivi: il mancato esperimento del contraddittorio preventivo e la violazione dell’art. 20 TUR, denunciando l’illegittima utilizzabilità di dati extratestuali e del collegamento funzionale tra una pluralità di atti, per assoggettare a tassazione gli effetti giuridici finali in concreto conseguiti. La pronuncia La Corte, nel valutare la questione sottoposta, prende le mosse da quanto deciso dalla Corte Costituzionale con sentenza 158/2020 in merito alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 20 TUR nella parte in cui dispone che, nell’applicazione dell’imposta di registro, debbano prendersi in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso “prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati”[1]. La norma veniva censurata sul presupposto che siffatta limitazione per l’attività accertatrice fosse lesiva dei principi di eguaglianza ex art. 3 Cost. e di capacità contributiva ex art. 53 Cost. La Corte Costituzionale ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità sollevata, evidenziando come il legislatore, con il citato intervento riformatore, avesse legittimamente esercitato la propria discrezionalità normativa, riaffermando la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro. In quest’ottica, la Consulta ha confermato la legittimità di un prelievo fiscale che si limiti a colpire gli effetti giuridici dell’atto sottoposto a registrazione, senza che assumano rilievo elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo. La Corte Costituzionale ha inoltre affermato che l’interpretazione dell’art. 20 TUR che vorrebbe incentrato il prelievo sulla “causa reale” del negozio giuridico “provocherebbe incoerenze nell’ordinamento, quantomeno a partire dall’introduzione dell’art. 10bis della l. 212/2000, consentendo infatti all’amministrazione finanziaria (…) di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente”. Sulla base di quanto statuito dalla Consulta, la Corte di cassazione ha confermato la funzione dell’art. 20 TUR come regola interpretativa e non già come regola antielusiva. Con la pronuncia in commento, la Suprema Corte ha rigettato il primo motivo di impugnazione relativo al mancato esperimento del contraddittorio endoprocedimentale, ritenendo non obbligata l’Amministrazione in tal senso in assenza di un’espressa previsione normativa e, a maggior ragione, considerando che la contestazione mossa dall’Ufficio nel caso di specie non ha avuto ad oggetto un abuso del diritto. Quanto al secondo motivo di impugnazione, i giudici di legittimità, aderendo alle indicazioni della Corte Costituzionale, hanno affermato che l’Ufficio, nella sua attività riqualificatoria, “non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile”. Più in particolare, non è precluso all’Amministrazione procedere all’attività riqualificatoria di un atto presentato alla registrazione, ma tale prerogativa è da intendersi circoscritta ai casi espressamente individuati dall’art. 20 TUR, ossia quando il contenuto dello stesso o gli effetti giuridici dal medesimo spiegati non corrispondano al titolo o alla forma apparente impressa dalle parti, e semprechè tale difformità emerga “sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo”. Con espresso riferimento al caso trattato, la Corte ha espresso il seguente principio di diritto: “va affermato come, ai fini dell’imposta di registro, operazioni strutturate mediante conferimento di azienda seguito dalla cessione delle partecipazioni della società conferitaria (come la presente fattispecie) non possano essere riqualificate in una cessione di azienda e non configurano di per sé il conseguimento di un indebito vantaggio realizzato in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario”. La Corte di cassazione ha ribadito quindi quanto già espresso dalla Consulta nella sentenza 158/2020, ovvero la necessità di distinguere l’attività riqualificatoria ai fini dell’imposta di registro svolta dall’Ufficio sulla base dell’art. 20 TUR da una contestazione di elusione ai sensi dell’art. 10-bis L. 212/2000. Se infatti con la prima attività l’Agenzia non può indagare sul conseguimento di indebiti vantaggi fiscali per il contribuente, ciò non preclude una siffatta valutazione nell’ambito di un accertamento anti-abuso. Secondo la Suprema Corte, come precisato dalla Corte Costituzionale, ritenere irrilevanti sia gli elementi extratestuali che gli atti collegati non significa favorire l’ottenimento di indebiti vantaggi fiscali, sottraendo all’imposizione l’effettiva ricchezza imponibile. Ciò in quanto tale sottrazione potrebbe rilevare sotto il profilo dell’abuso del diritto. A.P.